lunedì 13 febbraio 2017

Flannery O'Connor

Si fa presto a dire gotico o grottesco, che sono definizioni che lasciano sempre il tempo che trovano. In realtà l’esplorazione di Flannery O’Connor, “garantita” in un certo senso dalla fede, dalla certezza assoluta della separazione tra bene e male, è qualcosa di assolutamente originale e singolare: è un calarsi nelle profondità dell’animo umano e nelle sue distorsioni con un coraggio che pochi hanno avuto. Sempre sul filo del rasoio, con un’energia ricavata dai contrasti, perché poi bene o male non sono così distanti, i racconti di Flannery O’Connor funzionano come parti di un insieme, e spesso sono serviti da apripista ai romanzi, ma il più delle volte sono forme indipendenti che vivono di vita propria. Sono constatazioni multiple dei dettagli, istantanee brucianti, visioni, percezioni, figure in movimento, e sono gioielli di precisione. Ogni particolare si incastra in quello successivo, uno nell’altro, ogni piccola sfumatura, naturale, artificiale o umana che sia, concorre a costruire la storia in un equilibrio cristallino perché come diceva Flannery O’Connor “la narrativa opera attraverso i sensi, e uno dei motivi per cui, secondo me, scrivere racconti risulta così arduo è che si tende a dimenticare quanto tempo e pazienza ci vogliono per convincere attraverso i sensi. Se non gli viene dato modo di vivere la storia, di toccarla con mano, il lettore non crederà a niente di quel che il narratore si limita riferirgli. La caratteristica principale, e più evidente, della narrativa è quella di affrontare la realtà tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare, toccare. E’ questa una cosa che non si può imparare solo con la testa; va appresa come un’abitudine, come un modo abituale di guardare le cose. Lo scrittore di narrativa deve rendersi conto che non è possibile suscitare la compassione con la compassione, l’emozione con l’emozione, o i pensieri con i pensieri. A tutte queste cose bisogna dare corpo, creare un mondo dotato di peso e di spessore”. L’ossessione per il corpo, derivata dalla malattia, dalla sofferenza e, ancora una volta, dal conflitto, è trasmessa come un’infezione ai protagonisti. Un piccolo dato statistico: su 32 racconti, 20 cominciano con il nome di un personaggio sparato già nelle prime righe dell’incipit, come se Flannery O’Connor dovesse nominare, subito, fin dall’inizio, i volti, le figure, i caratteri che determineranno la trama, il racconto, la storia. Uomini e donne “spaventosamente ingenui”, come li definisce, su tutti, in Brava gente di campagna e la brutale predisposizione verso i personaggi porta di conseguenza verso una forma di scrittura che è un concentrato urticante di sovrapposizioni di toni, di sfumature, di linguaggi, dal gergo popolare ai motti tradizionali, dalle pagine bibliche ai dialetti. C’è qualcosa nella forma, estrema e tagliente quanto rigorosa, che sfiora e graffia: nella sua essenza conta l’ambiente, rurale e povero, le dimensioni famigliari sempre un po’ incompiute, la vocazione a guardare dentro il buio. Un modo di pensare, anche, perché “la narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo fatti di polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi non dovreste tentare di scrivere narrativa. Non è cosa abbastanza nobile per voi”. A volte è goffa e crudele nel modo di esprimersi (non tanto nella forma, quanto nella scelta di tempo), e quando deve parlare di sé e del suo lavoro sa essere ancora più perfida, come scriveva in una delle lettere raccolte in Sola a presidiare la fortezza: “Sono contentissima che i racconti ti siano piaciuti, così ora non trovo sconveniente che a me piacciano tanto. La verità è che mi piacciono più che a chiunque altro e li leggo e li rileggo e mi sbellico dalla risate, poi mi ricordo che li ho scritti io e un po’ mi vergogno”. Inimitabile.

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