giovedì 2 febbraio 2017

Don DeLillo

Le indicazioni scenografiche sono limitate all’indispensabile, eppure autosufficienti: “Un’ampia stanza in una vecchia casa, situata in un luogo remoto. La scena è quasi vuota e semi-astratta, luci basse, i pochi mobili sono molto vissuti, compreso il sofà. Vi è anche una piantana di metallo con appeso il flacone per la flebo”. Una postilla a parte recita: “C’è una zona isolata che servirà per alcune scene”. Come succede spesso, quello che Don DeLillo lascia sospeso e incognito è più importante di ciò che è reso esplicito e nel caso di Love-Lies-Bleeding è pure ambivalente. Quella “zona isolata” di cui parla è riempita dalle contorsioni delle persone attorno ad Alex Macklin, l’artista che non è vivo e non è morto, non è presente e non è passato. I personaggi sono identificati soltanto attraverso l’età, i ricordi cozzano e Don DeLillo incide con profondità nel cambiare prospettiva. Primo atto, prima scena, l’immagine di un viaggio in metropolitana, con un cadavere davanti, succede a New York. Subito dopo, intorno allo scarno capezzale si ritrovano due delle quattro mogli (Lia, l’ultima, e Toinette, la numero tre), nessuna delle quali è la madre dell’unico figlio, Sean. Lui definisce il padre “un uomo capace di creare opere grandi e famose”, non di meno si sentono tutti in trappola, almeno quanto Alex è rinchiuso in un corpo ormai spento e senza alternative. Il dilemma è come considerare l’ombra di un uomo voluttuoso, imprevedibile, istintivo ormai costretto all’immobilità, al silenzio, ad attendere una decisione che, come ricorda Toinette, “non è una cosa pubblica. E’ privata”. In controluce si può intravedere un precedente (notevole) per Zero K, ma la condizione in sé di Love-Lies-Bleeding è quella di una pièce di Sam Shepard, con un terzo occhio in più. Uno, due flashback e in un dialogo tra Alex e Toinette tutto diventa chiaro. Alex dice: “Voglio buttarmi alle spalle dubbi, smettere di pensare, di preoccuparmi, voglio sapere, voglio lavorare”. Per tutta risposta Toinette sembra tradurre i suoi desideri: “Vuoi rischiare il tutto per tutto. E qui non hai via di scampo. C’è tutto. Arte, artista, paesaggio, cielo”. In quel momento si trovano nel deserto che Don DeLillo tra l’altro descrive così in Punto omega: “C’erano distanze che abbracciavano ogni caratteristica del paesaggio e c’era la forza del tempo geologico, lì, da qualche parte, i reticoli di spago dei palentologi in cerca di ossa erose dalle intemperie”. Alex, l’artista in attività, forse pensa a Georgia O’Keefe o meglio ancora Michael Heizer, scultore che modella dozzine di tonnellate di pietra perché considera le rocce “un buon surrogato” e dice ancora: “Non facciamo troppo gli ambiziosi. Rimaniamo qui in questo spazio e in questa luce”. Gli fa eco Toinette: “Mi immergo nella luce di questo vasto, di questo grandioso, di questo. Abbiamo bisogno di qualcosa per estendere il verso”. Per tutta risposta, Don DeLillo annota sul canovaccio di Love-Lies-Bleeding che “Alex versa il vino”. La laconica osservazione ha un suo peso specifico. Da quel punto di vista, il deserto è uno stadio di primitiva naturalezza, l’ultima occasione per ritrovare una spontaneità o un’innocenza perdute, persino una grazia nelle asperità della lotta per la sopravvivenza della flora e della fauna nella limitata e crudele catena alimentare. Solo che il deserto, “piatto e assolutamente teatrale”, come lo descrive Michael Heizer diventa un “paesaggio dialettico”, l’espressione di un’ipotetica metafora della condizione di Alex oppure no, soltanto il capolinea della sua espressione artistica, orizzonte verticale e orizzontale insieme, spazio senza dimensioni e senza tempo e comunque riflesso di un’altra condizione di cui non si percepisce né inizio né fine. Nemmeno Don DeLillo riesce a definirlo, ma almeno rende l’idea, riesce a fornire una cornice, un’atmosfera. Come direbbe Michael Heizer: “Davanti a noi non c’è nulla, eppure c’è una scultura”. Ecco, com’è Love-Lies-Bleeding, proprio così.

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