domenica 2 agosto 2015

E. L. Doctorow

Wittgenstein, “i Dead, i Creedence. Dylan, naturalmente”, il cinema e la fede, la teologia e l'astronomia, il Midrash Jazz Quartet che suona Stardust, Good Night Sweetheart, Dancing In The Dark, The Song Is You e My Blue Heaven, New York appena prima dell'apocalisse e l'Europa nel caos della seconda guerra mondiale, l'origine dell'universo e l'evoluzione della specie, tenendo ben presente che “ogni cosa ha continuato a staccarsi da ogni altra cosa”: tutto concorda a definire qualcosa in più di un romanzo, anche perché è difficile contenere nella definizione tutte le storie assemblate da Doctorow per l'occasione. La trama è spiazzante, scheggiata, spezzata: come in una mappa sotterranea e segreta della città si sovrappongono e s'intersecano più livelli con dinamiche imprevedibili che imprigionano gli uomini, le donne, gli esseri umani in generale nelle loro idiosincrasie, nei loro ricordi e nelle loro conversazioni, senza soluzioni, rinchiusi nei dubbi e nelle incertezze e qui Doctorow è lapidario nel sottolineare che “non siamo altro che spettrali congetture del linguaggio”. Non è facile nemmeno individuare il protagonista tra le coreografie che serpeggiano per la città, divina o profana che essa sia, e nei viaggi nel ventesimo secolo a cercare il punto dove la cosiddetta civiltà ha inserito la retromarcia. C'è un episodio, una scintilla (una croce rubata a un prete scosso dai dubbi e lasciata sul tetto di una sinagoga) da cui si diramano tutte le altre storie, compresa quella love story che è l'unica costante nell'infinita progressione della scrittura di Doctorow. Anche le conversazioni, sembrano fornire solo la tela su cui allunga le sue ombre, i suoi schizzi e le sue impressioni, come se su un quadro di Mondrian fosse arrivata un'esplosione di Pollock, rendendo, in tutta la complessità della sua visuale, le pagine vive, avvolgenti, perché “come un circuito stampato attraverso il quale scorrono le nostre vite, una storia narrata sviluppa la nostra capacità di vivere in corpi che non sono i nostri”. Contorto, paradossale, assurdo come sono gli esseri umani, come è fatta la loro storia di guerra, rituali, canzoni e film, Doctorow è geniale nell'assemblaggio, lirico nel tono, provocatore nelle suggestioni, acrobatico nel passare da un registro all'altro, in questo fedele alla constatazione che, sì, in effetti “non esiste un individuo più pericoloso del narratore”. Il suo capolavoro è attenersi al ruolo con una perfida vena ironica, uno spiccato gusto per lo sberleffo che si nasconde in tutti gli anfratti, sia nelle più criptiche disgressioni filosofiche, sia nei momenti più prosaici, dove la danza delle parole e delle immagini appare fine a se stessa, allo stile, all'ispirazione e ai piaceri più epidermici. Più che nell'ardita costruzione, la grandezza (inequivocabile) di Doctorow è nella libertà che si guadagna e si prende, sapendo che l'autore deve “onorare il carattere della sua idea e lasciare che si esprima in tutta la sua sventurata insufficienza fino al momento in cui anch'essa arriverà alla sua miserabile fine”. Amen.

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