“La
vita non è mai abbastanza” ed è per quello che esiste la letteratura, sembra
suggerire Alice Munro. Le opzioni che si susseguono in Il sogno di mia madre sono fatte apposta per confermare il suo
motto. La varietà delle forme narrative contenute, da Una donna di cuore, che è quasi un breve romanzo a Cortes
Island, una brevissima
short story, dalla linearità di Le bambine restano alla complessità di Il sogno di mia
madre, è resa uniforme
dal tema ricorrente nei racconti di Alice Munro: donne che se ne vanno,
oppresse da quello che in Giacarta
chiama “il peso materno” o per provare “la sensazione di pacato trionfo” nel
rendersi conto di essere sole, come scrive in Ricca sfondata. Più di tutto, è “un’idea che ha a che
fare con il non dover proseguire, non dover tornare a casa” e il più delle
volte si traduce nell’inventarsi “uno spazio per sé, una fuga interiore”. Un
proprio tempo, che pare essere ricalcato nelle continue deviazioni imposte da
Alice Munro: spesso e volentieri schiva l’ordine cronologico e si concede
flasback, ricordi, divagazioni, persino il rincorrere dei motivi di un antico
gioco infantile, su cui costruisce tutto Salutate il mietitore. Il capolavoro di questa scomoda
architettura, in sé una lettura molto stimolante, è proprio Il sogno di mia
madre in cui, con la
colonna sonora del Concerto per violino di Mendelssohn, sovrappone più e più piani di indagine,
alzando in continuazione il livello e “l’onore
di una scrupolosa attenzione”. L’altro estremo è ben rappresentato da Le
bambine restano, la cui
protagonista, Pauline, racchiude in sé un po’ tutti i caratteri dei personaggi
di Alice Munro. Pauline ha un rapporto diafano e superficiale con il marito,
appesantito dalla presenza di un suocero molesto. Mentre sono tutti insieme in
vacanza, con le due figlie piccole, Pauline, tra le mille incombenze
casalinghe, scopre “un’affinità di sensazioni” con il regista di una versione
dilettantesca del mito di Orfeo, in cui lei, neanche a dirlo, deve interpretare
Euridice. Il desiderio è una marea inarrestabile e il suo compimento sarà più
inevitabile che entusiasmante (“La procedura non conosce poi tante varianti, a
dispetto di quanto si dice. Contatti di pelle, gesti, la resa”). La fine della
storia è lancinante, com’è prevedibile fin dal titolo, perché, come scrive
Alice Munro, “eppure, che dolore. Da portarsi appresso e farci l’abitudine fino
a quando è solo del passato che si soffre e non di qualsiasi presente
possibile”. E’ il prezzo da pagare e la partenza di Pauline comincia da molto
lontano visto che “proveniva da una famiglia dove le cose si prendevano
talmente sul serio che suo padre e sua madre avevano divorziato”. E’ il
costante ribaltamento di ruoli e posizioni tra madri e figlie, donne e bambine
che anima la narrativa di Alice Munro insieme alla sua straordinaria capacità
di cogliere piccoli dettagli tra “prati
e cespugli, steccati, giardini e alberi, tutti coperti di mucchi e cuscini di
neve, ancora non livellata o scomposta dal vento. Il bianco di quella neve non
feriva gli occhi come quando ci batteva il sole. Era il bianco di neve sotto un
cielo sereno poco prima dell’alba. Ogni cosa era ferma”. D’accordo che, come
diceva qualcuno, la neve è sopravvalutata, ma quando Alice Munro riesce a
colmare la differenza tra i riflessi con il sole ormai alto e invece, all’alba,
dove la luce è più gentile, anche il Nobel diventa relativo.
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