Le
Note verso la finzione suprema
hanno la forza di una confessione, l’eleganza inaudita di un poema classico e
la ruspante essenza di una ballata popolare. “Le giuste parole” di Wallace
Stevens costituiscono una terra comune tra la finzione e la realtà o una
trincea, per l’occasione, una forma di dialogo filosofico e un canto
accompagnato dal banjo, la cosa in sé, il reale e la sua armonia con
l’impossibile, dove “alla fine ciò che dovremmo trovare è la vita normale,
penetrare in ciò che è comune, riconciliarsi con la realtà. Il problema è che
la poesia è in gran parte una vicenda di trasformazioni”. Il filosofo desidera
essere il poeta, il poeta risponde con le parole alle idee, i versi vogliono
essere musica che “piomba sul silenzio come una sensazione, una passione che
proviamo, senza comprendere”. La finzione esiste già nell’atto di esistere.
Credere, in definitiva, significa avere fiducia in qualcosa di irreale, non
tangibile, meno ancora, verificabile. Anzi, “il primo passo verso una finzione
suprema dovrà essere quello di liberarsi di ogni finzione già esistente. Una
cosa risalta più chiara nell’aria pulita che se coperta di fuliggine”. Suprema ed estrema, la finzione è la linfa
vitale, essenziale, la cosa in sé e più della cosa in sé: è un modo, ovvero il modo, per percepire la realtà e la vita
(in sé). Il giocoso labirinto poetico porta in un rebus di parole dove le Note
verso una finzione suprema
diventano contraddittorie, ondeggiano come i riflessi di un miraggio, fluttuano
tra l’astrazione più criptica e il candore dell’ingenuità, tutto e il
contrario, al punto di dire che “ci sono cose di fronte alle quali volentieri
sospendiamo la nostra incredulità; se c’è in noi una istintiva volontà di
credere, a me pare che possiamo sospendere il dubbio riguardo alla finzione,
così come lo sospendiamo di fronte ad altre cose. Ci sono finzioni che sono
ampiamenti di realtà”. Wallace Stevens incanta perché non declama, sussurra in
continuazione, i suoi versi sono come quel vento che è l’unico modo con cui gli
alberi possono fare musica: intuitivi, leggeri, impalpabili, perfetti. Un canto
americano e quando (per dire: sempre) “la vita insensata ci trafigge coi suoi
misteriosi rapporti”, ecco che sfodera, con sublime eleganza, “un elisir, una
tensione, un puro potere. La poesia, grazie al candore, ci dà sempre di nuovo
la forza di ritrovare di ogni cosa l’immacolata natura”. La mutazione è
avvenuta: un po’ era prevedibile perché “naturalmente alla lunga, la finzione
suprema sarà la poesia; l’essenza della poesia è che trasforma, e l’essenza
della metamorfosi è che dà piacere”. Un po’ è indispensabile e Wallace Stevens
si premura di spiegare senza possibilità di svista, la funzione ultima delle Note
verso la finzione suprema:
“Scoprire un ordine come quello delle stagioni, scoprire l’estate e conoscerla,
scoprire l’estate e conoscerla, scoprire l’inverno e conoscerlo bene, trovare,
non imporre, non ragionare affatto, ma dal nulla arrivare a tempo maggiore, è
possibile, possibile, possibile. Deve essere possibile. Deve poter accadere che
negli anni il reale si levi oltre i suoi rozzi aggregati”. Una limpida
invocazione.
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