venerdì 2 gennaio 2015

William Faulkner

L’odissea della famiglia Brunden (Anse, il cadavere della moglie Addie e i cinque figli Cash, Darl, Jewel, Dewey Dell e Vardaman) ricalca sentieri e traversie bibliche con un punto di partenza essenziale così come l’ha descritto William Faulkner: “Ho immaginato semplicemente un gruppo di persone, che ho sottoposto a quei flagelli naturali e universali che sono l’inondazione e l’incendio, con un pretesto elementare che guidasse la progressione delle loro azioni”. La furia degli elementi è determinante nella complessa visione, insieme cinematografica e metafisica. Il carro nel fiume è un naufragio, ogni passo degli uomini e degli animali è “sangue selvaggio che bolle nella terra” e la tragicità del viaggio in sé, nella sostanza un corteo funebre privo di controllo, dipende dal fatto che, come dice uno dei protagonisti, “è come se lo spazio che ci separa fosse tempo: una qualità irrevocabile”. La stessa della  scrittura di Faulkner: in Mentre morivo è precisa, lirica eppure immediata e popolare. Intaglia le frasi con la stessa premura con cui Cash rifinisce le assi della bara, ma con la coscienza dei limiti e delle asperità del linguaggio. Estremo nella rappresentazione Faulkner, lo è anche nella forma quando dice che “le parole non significano nulla, non corrispondono mai a ciò che si sforzano di esprimere”, e una parte non indifferente della grandezza di Mentre morivo si appoggia proprio su questa consapevolezza e nell’essere stato capace di trasferirla alle sue creature. Lo rivela Addie, o il suo fantasma, forse, rivolta ad Anse: “Lo chiamava amore. Ma io ero abituata alle parole da molto tempo. Sapevo che quella parola era come tutte le altre: solo una forma per riempire un vuoto; sapevo che al momento giusto non ci sarebbe stato più bisogno di quella parola né delle altre, come orgoglio o paura”. Questa percezione si riflette anche nel formato di Mentre morivo, insieme corale e segmentato, voce per voce, personaggio per personaggio e ben riassunto dalla ricostruzione di Darl: “Come se quell’agglomerato che noi siamo si fosse dissolto nel caotico movimento originario, la vista e l’udito fossero diventati cecità e sordità, e il furore fosse ridotto all’immobilità assoluta”. Non servirebbe aggiungere altro, se non quello che già Fernanda Pivano aveva chiarito, con la consueta sagacia: “Faulkner è incapace di abbandonare un’immagine prima di averla frugata e scarnificata fino agli elementi costitutivi in una corsa esaltata verso la definizione di una realtà che gli sfugge continuamente, come ogni realtà che abbia in sé il senso di un destino”. Il tema è quello e la conferma arriva dallo stesso William Faulkner: “Anche la famiglia Bundren, in Mentre morivo, affronta molto bene il proprio. Il padre, avendo perduto la moglie, ne ha naturalmente bisogno di un’altra, e così se la prende. E non si limita a sostituire la cuoca di famiglia, ma contemporaneamente compra anche un grammofono per rallegrare a tutti le ore di riposo. La figlia incinta non riesce ad abortire, ma non si scoraggia. Si propone di tentare ancora, e se non dovesse riuscirci, dopo tutto ci sarà soltanto un bambino in più al mondo”, e amen, perché comunque la fine è sempre quella, dalla culla alla fossa. Molto più di un romanzo. 

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