Non è una bella lettura, American
Sniper, perché non va oltre i doveri
della testimonianza: la scrittura è piatta, monocorde, ridotta nella forma e
nello stile e del resto Chris Kyle ha passato una vita a tirare il grilletto,
non a studiare letteratura. E’ una catena di montaggio di luoghi comuni ma, se
non altro, American Sniper
risponde a una cruda sincerità mettendo in mostra una fiducia cieca nelle armi
e nell’applicazione della forza.
Scoperchia anche molte verità sull’infinita violenza della guerra in
Iraq, sulle battaglie casa per casa a Falluja, Ramadi e Sadr City, nonché sulla
tragica quotidianità di Baghdad. Dietro le ottiche dei suoi fucili di
precisione, Chris Kyle è convinto di essere un “moltiplicatore di forza” e si
confessa con una certa spudoratezza quando dice che l’applicazione del suo
talento era “divertente”. Il dramma risiede proprio nelle certezze (le solite:
la fede, la patria, la famiglia) da cui si fa guidare, fino alle estreme
conseguenze, perché “andando di continuo in guerra, ti muovi nei meandri più
bui dell’esistenza” e laggiù, nel buio, nella polvere, nel disastro, certi
valori né aiutano né servono. American Sniper gli si attorciglia attorno e Chris Kyle ammette e
racconta la realtà per quello che è: l’unico motivo e l’unico destino della
guerra non è la gloria, o la democrazia, o chissà cosa. E’ restare vivi, e
quindi ammazzare il nemico, fine del discorso. Qui Chris Kyle è fin troppo
esplicito: “Non ho rischiato la vita per portare la democrazia in Iraq. Ho
rischiato la vita per i miei compagni, per proteggere i miei amici e i miei
connazionali. Sono andato in guerra per il mio paese, non per l’Iraq. Il mio
paese mi aveva mandato là in modo che tutta quella merda non arrivasse a
lambire le nostre coste. Non ho combattuto neppure una volta per gli iracheni.
Degli iracheni non mi frega un cazzo”. E’ quando torna a casa che il quadro non
sta più nella cornice. La formazione di macchine di guerra come lui è quella
che è, e non potrebbe essere diversamente: un’iniziazione alla violenza senza
limiti e lo stess post traumatico comincia prima di andare in guerra perché c’è
qualcosa di sadomasochistico anche nell’addestramento. I ragazzi sono un
tantino esagerati: gli piace spaccarsi le ossa negli allenamenti o tra di loro
o nelle risse nei bar, gli piace andare a sfiorare tutti i limiti, giocando
sempre sul filo del rasoio, ma poi finiscono a pezzi, e non soltanto perché
travolti dall’esplosione di una granata. Nuotare con gli squali non è come
rispettare le regole d’ingaggio o sopportare le proteste di chi è contrario
alla guerra, a tutte le guerre. Il senso di inutilità, dietro una sconfitta
latente, è sempre in agguato. Non è un lavoro, ed è lì che la macchina
s’inceppa: Chris Kyle arriva al suo ultimo turno in Iraq “incapace di mangiare
o di dormire” e quando viene rispedito a casa si accorge di essere solo un
sopravvissuto, nemmeno un reduce o un veterano. Con un finale paradossale e
tragico, che trasforma la leggenda in un eroe disperato.
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