giovedì 8 agosto 2013

William T. Vollmann

Anche a un passo dall’apocalisse, William T. Vollmann sa essere pungente, ironico, amaro e nello stesso tempo preciso, dettagliato, nitido. All’indomani del terremoto e dello tsunami che hanno sconvolto la costa orientale del Giappone, i reattori danneggiati della centrale nucleare di Fukushima cominciavano a emettere radiottività in misure significative. Con l’intenzione di affrontare “una storia di cose che quasi non riusciamo a credere, tantomento a comprendere”, William T. Vollmann non esita ad affrontare il viaggio verso la Zona proibita, munito solo di un minuscolo dosimetro (lo strumento per misurare la radioattività, e come se lo procura è già una storia a sé a partire dallo scoppietante incipit), di alcune rudimentali protezioni e di un paio di pesanti handicap. Il primo è la lingua, a cui supplisce con l’inevitabile interprete e una concreta dose di umiltà. Il secondo è che, essendo americano, si porta dietro il rimorso storico di aver inaugurato, proprio in Giappone, l’era (e la paura) atomica. Nel “picaresco vagabondare di un dosimetro”, come lo chiama William T. Vollmann, si intuisce subito che la condivisione delle responsabilità è limitata, se non proprio impossibile perché “la sbalorditiva capacità delle autorità giapponesi di non dire assolutamente nulla è pari solo all’assurdo grado di fiducia che l’opinione pubblica ripone in esse; mentre la cinica diffidenza dell’elettorato americano fa il paio con la compiaciuta e, talvolta, spudorata disonestà delle corrispettive autorità”. Questa è la prima distinzione, la più urgente, che delinea la Zona proibita, poi il breve ed essenziale saggio spiega con frasi dai contorni chirurgici che le certezze atomiche si reggono sulla casualità e sull’indeterminatezza dei tempi di smaltimento dei residui. Le centrali sono costruite al massimo grado possibile di sicurezza, ma poi c’è sempre la possibilità di un evento di “classe nove”, come lo chiamano le autorità giapponesi, ed è l’imprevedibile che genera mostruosità come Three Mile Island, Chernobyl e, appunto, Fukushima. D’altra parte, come fa notare William T. Vollmann, “le scorie nucleari radioattive devono essere immagazzinate e custodite per periodi che eccedono in maniera esorbitante la cornice di riferimento di qualunque civiltà”. A quel punto il viaggio verso la Zona proibita si ferma: il dosimetro comincia a mandare segnali d’allarme, al silenzio delle macerie non si può aggiungere altro e la conclusione di William T. Vollmann è lapidaria: “Se l’interesse presente ci chiede di consumare quantità sempre crescenti di energia, qualunque modo pericoloso per produrre energia può essere accettato come necessario. Sul piano pratico, un cittadino giapponese (o americano) non ha il potere di impedire la costruzione di centrali nucleari. Leggendo questa storia, però, provate a pensare a quante altre volte vorreste assistere al disastro del reattore di Fukushima. Se doveste voler venire dalla mia parte, considerate di collocarvi sopravento”. Molto acuto.

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