mercoledì 7 agosto 2013

Max Gordon

Lenny Bruce, Woody Guthrie, Charlie Parker, Miles Davis, Woody Allen, Charlie Mingus e Sonny Rollins: “io conosco tutti, a cominciare dai poeti” diceva Max Gordon, deus ex machina del Village Vanguard, meta ambita e temuta della vita notturna di New York, che viene raccontata a partire dagli inizi pionieristici, senza un dollaro, senza una licenza e con tanto coraggio da rasentare l’incoscienza. Come quella che Max Gordon usò, una volta trascinato davanti a un giudice perché qualcuno aveva ritenuto osceni i versi elevati nei primissimi tempi al Vanguard: “Vostro onore, quello che abbiamo presentato non era intrattenimento. Era recitazione, declamazione, salmodia di poesie tra poeti”. E’ vero, non è stato (solo) entertainment: il Vanguard è stato un luogo fondamentale per la cultura americana nella seconda metà del ventesimo secolo e poco importa che fosse uno scantinato in fondo a una ripida rampa di scale e lo dice anche Nat Hentoff: “Il Vanguard di Max (Gordon) è un locale particolare che ha resistito così a lungo grazie, appunto, alla passione. Quella del pubblico, quella degli artisti, e quella dell’uomo sempre attento che guardava verso la scala per dare il benvenuto, nel suo modo così poco espansivo, a ciascuno dei nuovi viaggiatori della sera accogliendoli alla luce dell’improvvisazione”. Il memoir di Max Gordon ha lo stesso appeal: lo stile è generoso, immediato, senza fronzoli e senza velleità, semplice ed efficace nel ricostruire l’atmosfera irripetibile di una realtà che “a poco a poco acquista una vita propria. Tu l’hai avviato, ci hai messo le tue idee, le speranze, i sogni. E’ la tua creatura, ma ora è cresciuta e vive per conto suo, ed è meglio che tu te ne renda conto”. Dalle figure emblematiche delle strade del Village, il principe bohémien Joe Gould su tutti, agli anni furiosi e bollenti dei grandi jazzisti, Max Gordon ha un ritratto singolare per tutti, dallo sguattero a Dinah Washington, e se i toni sono sbrigativi ed efficaci, in linea con il personaggio, non mancano mai di ruvide affettuosità. Persino nelle didascalie del reportage fotografico che fa da spartiacque nella storia del Vanguard perché così Max Gordon descrive uno scatto di Bill Evans: “La prima volta che Bill Evans si esibì al Vanguard, venticinque anni fa, suonava il pianoforte durante gli intervalli fra i set del Modern Jazz Quartet. Mentre suonavano i quattro gli spettatori, che erano venuti per sentire loro, stavano zitti e attenti. Quando subentò Bill (Evans), si diffuse per tutta la sala un chiacchiericcio insistente. Chi diavolo era Bill Evans? Nessuno l’aveva mai sentito nominare. Era uno che faceva da tappabuchi durante le pause dei grandi del Quartet. Oggi anche Bill (Evans) è un grande. Suona al Vanguard quattro, cinque volte l’anno. E quando suona lui, nessuno chiacchiera più; il Vanguard sembra una chiesa”. Se non vi bastano i ricordi di Max Gordon, provate con The Complete Village Vanguard Recordings, 1961 straordinaria, unica celebrazione di Bill Evans (con Scott LaFaro e Paul Motian).

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