Un Mark Twain nella versione filosofo, in cerca di risposte (o, forse, più di domande) ricostruisce il confronto tra un giovane e un vecchio sulla natura dell’uomo, sulla determinazione delle “influenze esterne”, sui doveri dell’educazione, sui legami con l’ambiente e sull’essenza stessa della vita. Il dialogo su cui si basa Che cosa è l’uomo? è dubitativo, senza sosta e sincopato, con interrogativi che si succedono a raffica a definire le personalità dei due protagonisti. Il giovane è attento, scrupoloso e incalzante, per niente timoroso nell’affrontare lo snodarsi imprevedibile e fin troppo articolato della conversazione. Più che l’archetipo della saggezza, il vecchio è un insegnante convinto della propria conoscenza, forgiata dall’osservazione, dalla riflessione e, in ultima analisi, dall’esperienza non meno che dalle convizioni che hanno alimentato la sua decisa opinione sulla natura del genere umano. La tesi sostenuta dal vecchio e su cui il giovane ribadisce la sua necessità di approfondimento è implicita nel titolo di Che cosa è l’uomo?, trattandosi, e questa è la fonte del confronto, di “una macchina impersonale. Un uomo, così com’è, dipende dalla sua fattura d’orgine, e dalle influenze esercitate su di essa dal suo patrimonio ereditario, dal suo habitat, dalle sue associazioni. Egli è mosso, diretto, comandato, esclusivamente da infuenze esterne. Egli non dà origine a niente, nemmeno a un pensiero”. L’elemento provocatorio è evidente ed è attorno a quello che Mark Twain, attraverso il ridotto convivio di Che cosa è l’uomo?, distribuisce con generosità i paradossi con cui cerca di spiegare la sua scarsa fiducia e nello stesso tempo la sua grande compassione verso il genere umano. In effetti se sono le cosiddette “influenze esterne” a delimitare in modo irrevocabile la formazione di ogni uomo e a determinarne in modo più o meno diretto il suo destino, quello che resta da fare secondo Mark Twain sarebbe tutto sommato elementare e comprensibile ai più: “Dobbiamo produrre quello che possiamo; dobbiamo fare del nostro meglio e non dobbiamo preoccuparci affatto se degli sconsiderati ci rimproverano di non produrre dei gobelin”. La sottile ironia riferita alla raffinata tappezzeria parigina è un calembour per dire che, per quanto dipenda dalle “influenze esterne”, secondo Mark Twain alla fine per l’uomo fa giusto quello che può, ovvero “compie un unico dovere, il dovere di appagare il suo spirito, il dovere di rendersi gradevole a se stesso”. Il vecchio impiega più di mille parole per spiegare al giovane Che cosa è l’uomo? e quest’ultimo ne ha bisogno altrettante per arrivare per riuscire ad afferrarne il senso, anche se soltanto in modo molto vago e non del tutto convinto. L’involuzione della discussione è inevitabile perché il quesito fondamentale, quello del titolo, rimane insoluto ed è tutto meno che retorico. Come scriveva altrove Mark Twain: “Io non domando a che razza appartiene un uomo; basta che sia un essere umano; nessuno può essere qualcosa di peggio”. Onesto.
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