venerdì 5 novembre 2010

Leonard Cohen

Il gioco preferito è uno splendido romanzo o un lungo poema in forma di prosa (secondo Michael Ondaatje) che attraversa la twilight zone tra l’infanzia e l’età adulta con un entusiasmo per le parole istintivo e passionale e una dedizione per la scrittura che trascinano il lettore in un pozzo senza fondo di emozioni e suggestioni. Per avvicinarsi al Gioco preferito è inevitabile mettere da parte pregiudizi e idiosincrasie verso la forma e la natura del romanzo che qui tende a essere qualcosa di più e di diverso perché per Leonard Cohen “la poesia è una cosa sporca, cruenta, rovente che all'inizio deve essere afferrata a mani nude”. Siamo nel campo dell’intimo e dell’introspezione perché se non è proprio autobiografico, Il gioco preferito allinea moltissime fotografie dell'album di famiglia di Leonard Cohen a quelle di Lawrence Breavman, il suo protagonista, come lui alla ricerca di un volto che sappia parlargli la stessa lingua perché, fanno notare con una sola voce, “abbiamo tutti molte immagini di noi stessi. E’ sempre una sorpresa vedere quale assumiamo”. In comune i due hanno la solitudine lancinante dovuta alla comune esperienza della perdita, in tenera età, del padre. E’ un momento drammatico, che aggiunge uno scenario crepuscolare alla complessa magia dell’infanzia: “Dai sette agli undici anni è un bel pezzo di vita, pieno di ottusità e oblio. Si favoleggia che lentamente abbiamo perso il dono di saper parlare con gli animali, che gli uccelli non vengano più a visitare i nostri davanzali per chiacchierare. Man mano i nostri occhi si abituano alla vista, si corazzano contro lo stupore. Fiori di un tempo grandi come pini tornano ai vasi di terracotta. Anche il terrore diminuisce. I giganti e le gigantesse della stanza dei bambini rimpiccioliscono a insegnanti acide e padri umani”. Poi Il gioco preferito (e conoscendo Leonard Cohen non è difficile intuire a cosa si riferisca) prende forma con le ossessioni che lo seguiranno per tutta la vita: le donne e l'amore, la religione e il sesso, la musica e ancora, e sempre, la poesia che, come vuole la sentenza, “è un verdetto, non un'occupazione”. Basta seguire (Lawrence) Breavman nel suo labirinto d'emozioni e Il gioco preferito scorre via: morbida, accogliente lettura, che ha la strana atmosfera di un sogno ad occhi aperti dove qualunque tema trova una sua collocazione perché, come scrive Leonard Cohen “la notizia è fantastica. La notizia è triste, ma si trova dentro una canzone e quindi non è poi tanto male”. Un romanzo di formazione, direbbero i più informati, e c’è del vero, perché dentro Il gioco preferito, cresce quella spregiudicatezza nel trasfomare le parole che farà grande Leonard Cohen in tutte le versioni. Se all’epoca di Beautiful Losers, sosteneva che “il peccato va insegnato”, già con Il gioco preferito “la tentazione della disciplina” diventa un’urgenza feroce e lo rende, parole sue, “spietato”. Leonard Cohen, negli anni, è stato più volte cattivo maestro e buon allievo, o viceversa, ma, se non altro, direbbe Pablo Neruda, almeno ha vissuto.

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