Nella vita dei “topi di fiume” c’è chi caccia tartarughe, chi pesca conchiglie in cerca di perle, chi insegue la luna, chi va in cerca del colpo grosso, chi gioca d’azzardo. Mangiano piatti improbabili e bevono whiskey illegali, scompaiono in grotte e buchi nella terra, finiscono spesso e volentieri in gattabuia o in ospedale, con la testa spaccata. Vivono ai margini della città sulle rive di un fiume che è nello stesso tempo pieno di vita e inquinato da morire. Un fiume che non è metaforico e non scorre per niente tranquillo perché ogni giorno ha la sua pena e la lotta nella marginalità, contro gli elementi, la fame, la sventura sfianca tutti quanti. Suttree, “un uomo che non aveva propositi, né di tornare da dove era venuto né di raccontare quello che aveva visto”, vive in una casa galleggiante, così dentro al fiume che è difficile distinguerlo dal paesaggio. E’ un uomo dal passato ingombrante che cerca di rendersi più semplice il presente. Vorrebbe pescare le sue carpe e i suoi pesci gatto, venderli al mercato e lasciare passare la giornata bevendo (birra e/o whiskey) e guardando il fiume scorrere. Glielo impedisce un’armata di disperati e di perdenti che a vario titolo compaiono alla sua porta. Si va da Harrogate, giovane desperado che farebbe di tutto per fare soldi senza lavorare, all’intera famiglie di pescatori (e pescatrici) di perle che dragano tonnellate di conchiglie e molluschi in cerca di un tesoro che non arriva. Senza contare il suo inner circle di outsider devastati dall’alcol, una specie di circolo chiuso di emarginati in cui cova un’endemica vocazione alla violenza e alla sconfitta. “Un uomo è tutti gli uomini” scrive Cormac McCarthy nel centro del romanzo e non c’è dubbio che Suttree sia il personaggio che, “accennando a disturbi dell’anima e fatti della notte”, riesca a sublimare e rendere leggibile l’intera comunità che va attorno alle rive del fiume. La “voce” di Cormac McCarthy è forte, densa e trascinante anche se non è ancora armoniosa e precisa come nei libri che verranno. A volte s’inerpica in disgressioni ad un passo dal dialetto (e qui il traduttore deve aver fatto le acrobazie per rendere l’idea), altre sceglie parole e frasi cercate nell’abbondanza dei vocabolari e spesso, non senza un piglio visionario, intreccia una lingua che sembra confinata in quell’area specifica. Bisogna immergersi e seguire passo per passo l’andatura sbilenca di Suttree, arrancando soprattutto nel primo centinaio di pagine. Una volta nel fiume, la vita (del romanzo e di Suttree) avanza selvaggia e fragrante di umori, deliri e sapori. Allora sarà facile scoprire che Cormac McCarthy è sempre grande, anche quando descrive una scoreggia. Provare per credere.
martedì 12 gennaio 2010
Cormac McCarthy
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