lunedì 9 settembre 2024

Joan Didion

La vita lungo il fiume scorre tranquilla per la borghesia californiana, erede dei pionieri e proprietaria terriera. Tormentati dalla noia, dai rimpianti, dalle istituzioni (famiglia, governo, esercito, chiesa, sindacati, stampa) dall’incombere della seconda guerra mondiale, uomini e donne di una generazione in “uno stato di crisi privo di una ragione precisa”, bevono (in continuazione) sherry, vermouth, bourbon mentre coltivano i loro piccoli e grandi drammi esistenziali, che vanno dall’impellente necessità di godersi l’alcol  (“Per tutte le delizie mortali. Ora vediamo se rimediamo un drink prima di pranzo. Forse hai bisogno di fartene uno. Forse anche due”) all’omicidio. Anche se Joan Didion nel progredire di Run River lascia intravedere spesso e volentieri “uno squarcio nel tessuto sociale”, con la trasformazione della California da terra promessa per tutti a paradiso e inferno della speculazione edilizia, la sua osservazione è rivolta con ossessiva attenzione alla parallela evoluzione di un generale e incontrollabile desiderio, spesso fine a se stesso, fino a un esaurimento nervoso collettivo. È il sogno del West incrinato da un’aria di decadenza morbosa, come se le regole stessero svanendo insieme a un vecchio mondo, ovvero “un impero effimero, bisognoso di continuo controllo, di manovre a ogni frazione di secondo”, e questo riguarda in particolare i fragilissimi esseri umani che lo popolano. Lily, la ragazza con la spilla da balia negli occhiali, è senza dubbio il centro della gravità, ma spesso Joan Didion sposta il peso del groviglio di storie sul marito Everett passando quindi al setaccio non solo le dinamiche marito/moglie, ma anche quelle fratello/sorella, genitore/figlio e amico/amante. Gli incontri (e gli scontri) sono un po’ a geometria variabile ma tendono a ripetersi e Joan Didion si concentra su ogni scena (che poi è un cocktail, un party o un brindisi solitario) con la stessa, premurosa considerazione. L’effetto è un po’ straniante: Run River pare soltanto una lunga teoria di appuntamenti perché, nonostante i vincoli, sono estranei gli uni agli altri e la finzione, per sopportarsi nel “fronte domestico”, è all’ordine del giorno. Sia che si tratti dei preparativi per la festa di nozze (e nessuno da invitare) o di essere richiamati nell’esercito, quello che condividono è soprattutto un mood malinconico, “snervante” per le assenze e per le ingombranti presenze. È un teatro amaro, costruito su “un’improvvisazione basata su una battuta d’entrata che un giorno non avrebbe sentito, su caratterizzazioni che poteva dimenticare in ogni momento” dove il “il sorriso più che altro è un tic” e tradimenti, fughe, scenate e riconciliazioni si susseguono senza sosta finché tutti insieme non collimano in “un’unica caduta di stile”. La tragedia della decadenza non si può dissimulare e Joan Didion ha, già all’esordio, la straordinaria capacità di rendere “un vuoto che neutralizzava qualsiasi apertura, ovattava le voci, dissolveva le connessioni”. Certi arabeschi, con un’insistenza maniacale nella ricerca del tono giusto, l’abbondanza delle parentesi e delle reiterazioni che Joan Didion in seguito avrebbe limato e raffinato, e basta pensare per esempio a Democracy, non tolgono nulla a Run River che, con “una piacevole sensazione di discreta licenziosità”, racconta bellezza e tormento californiani, dove la famosa seconda chance non è prevista. L’influenza di Fitzgerald, neanche tanto nascosta (un indizio palese è che un antenato di Everett si chiama Francis Scott), e il richiamo a Čechov delimitano il perimetro in cui è nato Run River, l’inizio di una grande carriera. 

venerdì 6 settembre 2024

Silas House

Quando si raggiunge Il punto più a Sud restano dei punti interrogativi che toccano l’interpretazione del ruolo di genitore, il peso della fede e delle religioni, l’intervento delle istituzioni e degli strumenti di comunicazione moderni nei rapporti affettivi. Un sacco di domande che Silas House lascia scorrere nella storia degli Sharp, Archer (padre, professione: pastore evangelista) e Justin (figlio) uniti in una fuga imprevista e precipitosa. Partono da una piccola realtà rurale del Tennessee sconvolta da un’alluvione. La famiglia Sharp si è salvata e si è prodigata per i vicini. All’appello manca soltanto il cane, Roscoe, e Justin, che è un bambino piccolo per la sua età, ma particolarmente sensibile, è andato cercarlo ma dal diluvio sono emersi, Stephen e Jimmy, bisognosi di un approdo asciutto. Salvo i primi soccorsi, la moglie Lydia, molto osservante, non li ha voluti ospitare perché sono gay. Da lì si rompe qualcosa, la fede diventa una costrizione e il pastore Sharp in rapida successione lascia il gregge e la famiglia. A partire dal suo discorso di commiato dalla congregazione, volto alla tolleranza, alla comprensione e alla condivisione, subito ripreso dai social, ma l’eloquio non è gradito né dalla consorte, né dalla congregazione e Archer sceglie di andarsene, ma con la paura che Justin possa diventare “come chiunque altro in questo mondo cinico e noioso, che si perde la meraviglia di ogni cosa”, decide di portarlo con sé. La meta è Miami in cerca del fratello Luke, anche lui a suo tempo vittima del pregiudizio e dell’indifferenza. Da padre a “ladro di bambini”, è un attimo: i tribunali, gli avvocati, la chiesa non considerano le emozioni, Asher è consapevole che la sua dimostrazione d’amore sarà condannata e derubricata a reato penale, ma ormai si sono avviati lungo “una strada senza uscita o a un inizio tutto nuovo”. L’affetto filiale nelle lunghe tappe on the road suggerisce una riflessione sullo stesso legame tra padre e figlio che animava La strada di Cormac McCarthy. La differenza (anzi, proprio il contrario) è che da una parte era una forma di protezione dal caos, mentre in Il punto più a Sud è una difesa dalla cosiddetta normalità e dalla burocrazia dei palazzi di giustizia e delle chiese. Mentre scorrono le canzoni di Patty Griffin, My Morning Jacket, Sinead O’Connor e Justin canticchia ritornelli di Tom Petty, la differenza tra il Tennessee e la Florida emerge non soltanto nei contrasti ambientali che Silas House tratteggia con scrupolo e con un’attenzione fuori dal comune. Non sfugge il capovolgimento simbolico dell’acqua, da spaventosa ferita nella terra, nell’esondazione del fiume, agli spazi infiniti e alla luce del mare. La parte più consistente del romanzo si svolge proprio davanti all’oceano, dove Asher e Justin infine trovano un modus vivendi e un faticoso equilibrio. Si accontentano dell’ospitalità di Bell, che canta le canzoni di Joni Mitchell, offrendo in cambio quel poco che riescono a fare e accudiscono Shady, un randagio adottato lungo la strada. Il nucleo che si crea, comprensivo di Evona, pur in tutta la sua fragilità somiglia molto di più a una famiglia, in particolare quando ricordano che “a volte si ride e a volte si piange, e finché siamo vivi possiamo affrontare tutto il resto”. A quel punto, e siamo alla fine, Silas House è stato troppo preciso e dettagliato per concedere un happy end, ma se non altro nella logica conclusione che spetta ad Archer (soprattutto) e a Justin lascia intuire la speranza che, pur con tutti gli errori e le penalità, qualcuno in fondo abbia fatto la cosa giusta. Le questioni restano tutte aperte: Il punto più a Sud ha pure il merito di non collocare risposte preconfezionate, lasciandoci intendere non tanto che bisogna scegliere da che parte stare, ma che una possibilità di ritrovarsi c’è sempre. Toccante.

mercoledì 4 settembre 2024

S. A. Cosby

Il sangue dei peccatori condensa molti contrasti che sono d’attualità nell’America del ventunesimo secolo: nero/bianco, giustizia/politica, pubblico/privato, fede/razionalità, uomo/donna, giovane/anziano, Nord/Sud, carnefice/vittima. È un continuo ondeggiare tra questi estremi e il romanzo matura una forza centrifuga perché Titus è uno sceriffo di colore in una contea della Virginia e si trova proprio nell’epicentro di tutti i conflitti. Dato il carattere elettivo della sua carica, è una posizione in bilico. Deve essere una guida, e un esempio, per la sua squadra e per la comunità di Charon, ma il susseguirsi degli eventi lo mette a dura prova, fino al punto di dover mettere in discussione la propria personalità: “Era quello il problema, se facevi il poliziotto. Poco alla volta cominciavi a sospettare di chiunque, e prima o poi finivi col tagliare il mazzo due volte giocando a carte con tua moglie”. Il sangue dei peccatori comincia con una sparatoria nella scuola locale, anche questo un lugubre primato americano. Uno studente (nero) uccide un professore prima di essere falciato da una raffica di colpi degli agenti dello sceriffo. È solo l’inizio, perché lo scontro a fuoco fa da traino all’apparizione di un serial killer particolarmente efferato che lascia le sue vittime martoriate dentro uno scenario di simboli cupi e inquietanti. Titus intuisce subito che c’è un collegamento perché “la violenza è sempre la confessione di un dolore”, ma è combattuto tra legami fragili e delicati (il padre, il fratello, la fidanzata) e sulla scena (in aggiunta) arriva la sua ex, una giornalista che alimenta un suo podcast, oggi funziona così. Titus deve affrontare tutta una serie di prove, e di fronte alla corruzione e all’ingerenza della politica, alle carenze strutturali delle istituzioni e alle divisioni sociali, è costretto a compiere scelte repentine, alcune giuste e altre sbagliate, al punto di ammettere: “Non si faceva illusioni. Sapeva chi era e cos’era. Per molta gente era il diavolo. E lo accettava. Però era un diavolo che andava a caccia di demoni”. Nell’inseguimento attraverso la Virginia e l’Indiana, il presente e il passato (ecco un’altra ingombrante contrapposizione), chiese e sette, suprematisti e oppositori, Titus cerca di rispettare le regole che deve imporre e difendere: lo sceriffo deve essere irreprensibile, ma tutto intorno a lui è un continuo distinguersi, sollevarsi, ribellarsi. Non è facile espletare così il mandato, ma “esiste un genere di caos che a volte può dare l’impressione di muoversi secondo un ordine. Quando certe situazioni caotiche continuano a ripetersi, da questo meccanismo emergono degli schemi”. Il racconto è tumultuoso e senza tregua perché nello sviluppo della storia tutta la contea subisce in un modo o nell’altro le conseguenze delle fibrillazioni che l’attraversano. Il ritmo incessante e la suspense sono garantiti dalla scrittura essenziale e senza fronzoli di S. A. Cosby, ma nella migliore delle tradizioni del thriller Il sangue dei peccatori tocca temi rilevanti e viene usato per raccontare l’America di oggi, con quelle spaccature dovute a un passato che non vuole passare, con tutte le vessazioni e le meschinità nascoste dietro la placida costruzione di una cittadina di provincia. I colpi di scena arrivano uno dopo l’altro e qualche cliché del genere è da mettere in conto, ma non toglie nulla alla qualità del romanzo che ha una sua solida aderenza alla realtà, compresa la malinconica bellezza del finale. Da tenere d’occhio.