Da New York, dove lavora per un’agenzia letteraria a San Francisco, in un tuffo senza rete nel mondo delle start up, Anna Wiener si lascia irretire dall’urgenza delle innovazioni tecnologiche e ne insegue il miraggio, pagando un prezzo che La valle oscura espone senza reticenze. La distinzione è già palese tra le due città: se la frenetica New York aveva una parvenza di attinenza alla realtà, nella salutista Silicon Valley è tutto un trend e/o un brand e non c’è contraddizione nell’inseguire gli ideali del fitness e nello frangente spararsi strisce di cocaina più lunghe delle linee di codice. È tutto centrifugato dentro un obiettivo né dichiarato né precisato e forse è proprio quello il senso comune che avvolge La valle oscura. Anna Wiener sa descrivere la vacuità della bolla informatica, l’ambizione, neanche tanto dissimulata, del tech (come lo chiamano gli insider) di governare il mondo, incluso il continuo richiamo alla speculazione economica. Sono le estreme conseguenze del cosiddetto sogno americano (o di quel che ne rimane) nell’inseguire una processione digitale che ha più dell’ineluttabile che dell’incredibile. La valle oscura diventa asfissiante e subdola nell’imporre modalità di comportamento, ovvero logiche esistenziali sovrapponibili ai regolamenti professionali. Bisogna essere “devoti alla causa”, un mantra ripetuto con frequenza ossessiva, indispensabile a sviluppare il culto dell’azienda: nella mancata distinzione tra orario di lavoro e tempo libero, quello smart working che in realtà è soltanto working e nemmeno tanto smart, il tempo si volatilizza, diventa un elemento impalpabile, sfuggente, tanto è vero che Anna Wiener si accorge che “il futuro era sfocato, il presente instabile”. La vita, che si svolge tutta nella rete, è determinata dalle onnipresenti app, e si risolve in una serie di riunioni, incontri, appuntamenti, ogni orizzonte piatto come lo schermo dei laptop. La tensione è palpabile e La valle oscura non risparmia nessuno: le discriminazioni di genere, di razza (persino di carattere) sono all’ordine del giorno e la volubilità induce persino a pensare al corpo come a un accessorio, uno strumento. Sono le estreme conseguenze dello svilupparsi ipertrofico della rete con i suoi impliciti rischi, non ultima l’intrusione del governo nella privacy, e, non di meno, lo sfruttamento senza limiti della sfera personale. L’algida natura digitale pare compensata da un’ipersensibilità che La valle oscura ospita come la nebbia di San Francisco, e così Anna Wiener ammette candidamente che “l’elaborazione come hobby mi fece provare affinità per la cazzate fredde e impersonali della cultura aziendale. La sincerità radicale spesso mi appariva come un crollo della barriera tra soggettivo e oggettivo. Poteva assomigliare a crudeltà. Ma pareva funzionare”. Non più del tanto: i rapporti sono sfilacciati e dominati dai luoghi comuni, e Anna Wiener sente di aver perso il contatto quando si accorge che il mondo dei suoi vecchi amici “era sensuoso, emozionale, complesso. Era teoretico ed espressivo. A volte poteva essere caotico. Non era il mondo che il software di analisi dei dati agevolava. Era un mondo che non ero più sicuro di poter dire mio”. La valle oscura prende forma come un diario di bordo quotidiano, che cerca di districarsi tra codici linguistici superficiali: c’è qualcosa di meccanico nella scrittura di Anna Wiener, una ripetitività assorbita dall’ambiente, appena mitigata da una saltuaria vena ironica. Vale come testimonianza diretta, senza filtri e censure, di un mondo autoreferenziale, concluso su se stesso, per quanto abbia dimensioni potenzialmente infinite, da ogni punto di vista. Il limite rispetto all’umanità e all’imperfezione della vita, così come lo presenta La valle oscura è invisibile, ma fortissimo e c’è tutto nel racconto di Anna Wiener, ma non c’è niente che già non sapevamo.
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