Nessuno come Burroughs ha usato lo strumento dell’intervista per modellare i pensieri, non meno che per renderli pubblici, pur sapendo che “la gente cerca di incasellarti. Vogliono ritrovare l’immagine che hanno di te, e se non succede si arrabbiano parecchio. Scrivere è capire quanto puoi avvicinarti a farlo accadere, è questo lo scopo di ogni arte”. L’abilità nell’arte del confronto è manifesta sia nei dialoghi con Allen Ginsberg (il più assiduo tra i suoi interlocutori), David Bowie, Gregory Corso, Timothy Leary, Brion Gysin, Gerard Malanga, Patti Smith o i Devo sia nei casi più frequenti di cronisti e reporter. Erudito, coltissimo, educato, Burroughs resta comunque anarcoide e fuori posto, in definitiva un outsider, ed è sempre molto concentrato, attento a non lasciarsi distrarre, avvinghiato alle sue numerose ossessioni: le armi e la guerra (“La storia di questo pianeta è la storia della guerra”) gli infrasuoni, l’apomorfina, il potere (“Il denaro? L’idea è che se tu ce l’hai, qualcun altro ne ha bisogno. La ricchezza è fondata sulla povertà. Il potere? Anche qui, è qualcosa di cui hai bisogno perché ce l’ha qualcun altro. Se nell’esercito sei un soldato semplice, la situazione è intollerabile, perciò fai del tuo meglio per salire di grado. È una piramide del bisogno. Una piramide del potere”), la tossicodipendenza, la fantascienza, il cut-up, la CIA, il controllo, il pericolo (“Una merce molto rara al giorno d’oggi, ed è stata monopolizzata dalle agenzie di intelligence e dagli stuntmen”), l’imponderabile (“I sogni sono un indizio di come è fatto lo spazio”) e l’imprevedibile (“Niente è inevitabile finché non accade”). Intervista dopo intervista prende forma una sorta di filosofia che predilige il “contatto” invece della “comunicazione”, e, ancora di più, quella “consapevolezza”, condivisa con gli amici e complici della Beat Generation tra Tangeri, Parigi, Londra e New York perché “un aspetto molto importante dell’arte è che rende le persone consapevoli di ciò che sanno e non sanno di sapere. Questo è vero non solo per l’arte, ma per tutte le forme di pensiero creativo. Una volta compiuta la svolta, c’è un’espansione permanente della consapevolezza, ma sulle prime c’è sempre anche una reazione di rabbia, di sdegno”. È un richiamo coerente e reiterato in tutte le Interviste che scorre contiguo (non a caso) all’idea multiforme del virus, inteso in senso biologico e metaforico, ovvero il linguaggio (“Più è puntuale la tua manipolazione o il tuo utilizzo delle parole, più sei conscio di ciò con cui hai a che fare, di cosa sia veramente la parola. E se sai davvero che cos’è, puoi sostituirla”) e il suo peso nelle mutazioni dell’umanità. A quel punto subentra l’interpretazione di un ruolo, a cui Burroughs dedica spesso e volentieri ampie riflessioni, partendo dal fatto che “se uno scrittore non si sforza di dilatare e modificare la propria coscienza e quella dei suoi lettori, non combina molto. Sono proprio le parole, le sequenze di parole, le sequenze di parole e immagini, e le associazioni connesse a quelle sequenze di parole e immagini, e le associazioni connesse a quelle sequenze di parole e immagini nel cervello, che ti ancorano al presente, proprio qui dove ci troviamo adesso”. Se da una parte sopravvive una concezione molto individuale (“C’è qualcosa di estremamente privato nello scrivere”), dall’altra si rivela una funzione pubblica, essendo convinto “che siano gli scrittori a scrivere ciò che accade. Facciamocene una ragione, le cose non succedono a meno che qualcuno non le scriva”. Negli stati di alterazione letterari prevale la propensione a identificare linee di fuga e universi paralleli svelando familiarità con Fitzgerald (il più influente), Tennessee Williams, Paul Bowles, Mary McCarthy (che più di tutti comprese l’aspetto “carnevalesco” dei suoi romanzi), Carson McCullers, Jean Genet, Graham Greene e Joseph Conrad, ma anche John Le Carré, Stephen King e Frederick Forsyth. La selezione è molto più ampia, ma va pure ricordata, come fa Burroughs, soprattutto nelle ultime Interviste, la dimensione della pittura, sia con la descrizione degli “shotgun paintings” (i dipinti ottenuti sparando contro un pannello di vernice), sia con le derivazioni stesse della scrittura (“Tutto ciò che scrivo è visivo”) che impongono un’ulteriore approfondimento: “Uno cerca di creare la visione di un essere umano. Certamente, le origini della scrittura, e forse di tutte le arti, erano collegate al magico. Le pitture rupestri, in fondo, sono l’inizio della scrittura. Tieni presente che la parola scritta è un’immagine, noi ce ne dimentichiamo ma non abbiamo una scrittura ideografica. La parola scritta è un’immagine, e pittura e scrittura erano in origine una cosa sola. Lo scopo di quelle pitture era magico, dovevano produrre gli effetti che raffiguravano”. Da allora il bisogno che soddisfa l’arte è rimasto immutato ed è “viaggiare nel tempo e nello spazio”, ovvero ancora la dimensione del sogno, che, Burroughs dixit “è una necessità biologica. Credo di tratti di qualcosa che gli artisti in effetti fanno: sognano per le altre persone”. Le Interviste offrono “tante considerazioni e nessuna conclusione”: la visione anzi la “previsione” di Burroughs, (“Creo il conflitto. Non prendo posizione”) resta straordinaria, coraggiosa e profetica. Tanto che, dopo un po’ (bisogna inoltrarsi in un’intricata giungla di più di mille pagine) viene spontaneo leggere soltanto le risposte.
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