All’apice dell’età del jazz, Francis Scott e Zelda Fitzgerald scrivono che “il successo era l’obiettivo di quella generazione che, almeno in parte, l’ha ottenuto e ora ci azzardiamo a dire che, in una confessione intima, nove su dieci ammetterebbero che il successo è solo un ornamento che desideravano indossare: ciò che davvero volevano era qualcosa di più profondo e di più intenso”. Sono gli epigoni di un’epoca: “sembravano appena usciti dal sole. La loro freschezza era straordinaria. Tutti volevano conoscerli” ha scritto Dorothy Parker e il luogo deputato a celebrarli era proprio Broadway che, nella sua sconsideratezza, viene annunciata così da Jerome Charyn: “Ciò che la deliziava erano le superfici e le strutture più che i significati. Joseph Urban costruì scalinate, non manifesti. E Broadway visse in un esuberante turbine di energia, in una cartellonistica che illuminò la notte, e in un ordine sociale che includeva residence e pensioni, gastronomie e palazzi del vaudeville, locali notturni e cabaret, dove si poteva incontrare ballerine di fila che lottavano per emergere, attrici in pensione che tossivano con violenza in una stanza di fronte a un muro, Jack Johnson che si allenava con la sua ombra in uno scantinato, Babe Ruth che si aggirava nel suo pastrano di pelle d’orso, Billy Rose che assomigliava a un gangster, ganster che assomigliavano al presidente della Paramount Pictures, commesse con tanto di cappello a cloche, veterani della grande guerra tuttora avvolti nelle loro molletterie, detective come Johnny Broderick che una volta aveva ficcato Legs Diamond dentro un bidone della spazzatura, erano tutti elementi di una melodia che fioriva nell’oscurità, che sarebbe stata imitata dappertutto, finché nessuno sarebbe più stato in grado di distinguere la realtà dalla finzione”. La ricca descrizione è eloquente nel definire Broadway: la scrittura di Jerome Charyn è sincopata, influenzata dal ritmo del jazz e dalla frenesia dei gangster, dalle atmosfere notturne e dalle vite arrembanti dei protagonisti che, oltre a Scott e Zelda, sono Damon Runyon (“un outsider desideroso di crearsi una seconda pelle, la pelle di Broadway”), Babe Ruth, Irving Berlin, Jack Johnson, Bessie Smith, Charlie Chaplin, Orson Welles. Le biografie si incastrano una nell’altra, senza soluzione di continuità, concentrando Broadway al centro del fermento delle gang di New York. Si tratta, secondo William R. Taylor, di “un mondo fatto quasi interamente di voci” dove la fame di successo tendeva a sorvolare le imposizioni della legge. I bootlegger prosperavano, le Ziegfeld Follies brillavano, nel vaudeville “il pubblico aveva la sensazione che ogni spettacolo venisse creato appositamente per lui”, le chiacchiere e il giornalismo consumavano relazioni ambigue, i musicisti crollavano, ma la musica non finiva e “Broadway era terra di nessuno, non era East e non era West. Consumava il tuo passato e la tua tradizione”. In quel vacuum temporale, l’incombente senso di pericolo e di eccitazione, che Il grande Gatsby condensava ai limiti della leggenda, è il vero “tratto distintivo” di Broadway, insieme alla sua folle effervescenza. Nella sua appassionata ricostruzione, Jerome Charyn non dimentica di sottolineare i passaggi violenti, brutali e razzisti di cui è disseminata “la nascita di un mito”, così come è molto accorto nel ricordare che “la storia dispone di una sua strana moneta grazie alla quale tutto può essere barattato, e i personaggi possono apparire e sparire per poi apparire di nuovo in un allestimento scenico che fluttua a seconda delle necessità e della musica di ciascun momento particolare”. È teatro, è spettacolo, è vita nelle strade, l’inganno è la norma. Molto bella la coda finale dove Jerome Charyn si ritrova a camminare, appena dopo l’11 settembre 2001, in una Broadway “anemica”, diventata un territorio punteggiato da richiami per turisti e privato di tutta la sua selvaggia bellezza.
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