mercoledì 10 ottobre 2018

Francis Scott Fitzgerald

Se l’età del jazz comprende e racchiude il mondo di Scott e Zelda Fitzgerald, dal 1920 al 1934, Belli e dannati prefigura “l’umanità in una nebbia blu marino, intenta a comprarsi un lusso” che poi collasserà in Tenera è la notte. Un corto circuito storico, umano e letterario che nasce prima di tutto dall’ambivalente processo di osmosi tra Scott e Zelda e tra la loro realtà e la narrativa. Impossibile non vederli nei riflessi di Anthony Patch e Gloria Gilbert, i protagonisti di Belli e dannati, che, all’alba del ventesimo secolo e con la prima guerra mondiale in corso, si trovano in un cul de sac tra “il frutto della giovinezza o dell’alcol, la magia passeggera del passaggio breve da buio a buio” e “l’antica illusione che la verità e la bellezza si fossero in qualche modo allacciate”. Anthony è l’unico nipote (non amatissimo) di Adam Path, un buon americano, un self made man ricchissimo, moralista, rigido e ormai al crepuscolo. Nella descrizione dello stesso Fitzgerald, Anthony “era uno dei molti dotato dei gusti e delle debolezze di un artista ma privo di una reale ispirazione creativa” e, in quanto tale, drammaticamente inconcludente. Vive con una piccola rendita, si prende lunghe e larghe pause vagando per New York da un bicchiere all’altro. Quando gli presentano Gloria Gilbert nota che  è “bellina... Anzi, maledettamente bella” e, subito dopo, che “è straordinaria... Non ha un filo di cervello”. L’accento misogino, non insolito per Fitzgerald, serve del resto per collimare Anthony e Gloria che “innamorati di genericità”, convolano a nozze. Il cadeau del nonno è un assegno di cinquemila dollari ben presto dissipati in un fiume di alcol. Non avendo molto altro da fare, i giovani sposi si consumano in feste che durano giorni. Sono continue, lunghe e devastanti eppure Anthony e Gloria insistono, con una convinzione e una determinazione paradossali che Fitzgerald ha sottolineato così: “L’atteggiamento superiore di noncuranza si trasformò da un giorno all’altro: dall’essere un semplice dogma di Gloria diventò il sollievo e la giustificazione di ciò che Gloria e Anthony decidevano di fare e delle conseguenze che ne derivavano. Non dispiacersi di nulla, non sprecare rimpianti, vivere secondo un chiaro codice d’onore reciproco e cercare la felicità del momento col maggiore fervore e la maggior tenacia possibile”. Francis Scott Fitzgerald è martellante e ossessivo, nel sottolineare il percorso accidentato di una coppia incosciente, trascinata dall’egoismo e dalla superficialità verso un destino inevitabile perché “era questa, evidentemente, la sostanza della vita: un trionfo confuso che accecava tutti, sirena nomade che li faceva accontentare di uno stipendio magro e dell’improbabilità aritmetica di un successo finale”. Si sente l’odore della cenere e del whisky e il ritmo incalzante (per quanto disordinato) di Belli e dannati segue il flusso di un senso costante di perdita, come se ci fosse una falla nelle esistenze di Gloria e Anthony. Compreso il finale, tragico e beffardo. Non dipende soltanto dal fatto che “la vita colpisce di rado ma logora sempre”, ma anche dal contesto, rivelato da Fitzgerald come “una satira spietata una parte della società americana che non è mai stata riconosciuta come un’entità: quella popolazione ricca, fluttuante, che affolla i ristoranti, i cabaret, i teatri e gli alberghi delle nostre grandi città”. Il “materiale letterario” di Belli e dannati viene da lì, tanto è vero che Zelda commenterà: “Mi è parso a un certo punto di riconoscere un pezzo di un mio vecchio diario misteriosamente scomparso poco dopo il mio matrimonio e anche brani di lettere che, sia pure molto rimaneggiate, mi suonano vagamente familiari. In realtà pare che mister Fitzgerald ritenga che il plagio debba cominciare in famiglia”. Lui, invece, scriverà alla figlia: “Ci siamo divertiti molto meglio di quanto abbiano fatto Anthony e Gloria”, ricordando ancora una volta gli effetti della rifrazione tra la vita dello scrittore e i suoi personaggi, a cui non ha mai concesso un granché. Nemmeno a se stesso o a Zelda, se è per quello, e con un solo rimpianto: “Vorrei che Belli e dannati fosse stato scritto con più maturità, perché era tutto vero. Ci siamo rovinati: in realtà non ho mai pensato che ci saremmo rovinati”. Onesto fino alla crudeltà.

Nessun commento:

Posta un commento