Carson McCullers elenca subito, nel corso dell’incipit, i protagonisti di Riflessi in un occhio d’oro: “due ufficiali, due donne, un filippino e un cavallo”. Un cast limitato, se non si conoscono Alison e Morris Langdon, Leonore e Weldon Penderton, Anacleto e, last but not least, il soldato Elgee Williams. Incastrati in una base militare nel sud degli Stati Uniti, territorio di elezione e di conquista di Carson McCullers, soffrono la particolare atmosfera di quel microcosmo, dove tutti sono vicini senza esserlo davvero e dove “il tedio nasce soprattutto dall’isolamento e da un’esagerata preoccupazione di comodità e di sicurezza, poiché appena un uomo si arruola nell’esercito è destinato a segnare il passo di chi gli sta davanti”. Composti, rigidi, disciplinati ed educati nella vita pubblica e alla luce del sole, sono perfidi, traballanti, inquieti, arrembanti una volta rintanati tra quattro mura o nelle ombre. Di volta in volta occupano il centro della trama e, ad ogni cambio di scena, la tensione aumenta in modo esponenziale. Anche Alison Langdon, emarginata nella sua camera, assistita da Anacleto, affaticata e distrutta diventa il perno della storia, nel momento cruciale in cui la corda tirata dai protagonisti si rivela un nodo scorsoio. L’intreccio elaborato da Carson McCullers seguendoli è nello stesso tempo un contorto labirinto emotivo e una bomba ad orologeria. Leonore Penderton e Morris Langdon hanno una relazione (nemmeno tanto segreta). I rispettivi conforti si odiano, non tanto per la relazione di cui sopra, ma per motivi epidermici, insondabili. Sono gli anelli deboli della catena di Riflessi in un occhio d’oro. Alison è malata, ipocondriaca, depressa e malinconica, succube di tutto ciò che le succede attorno. Weldon Penderton è frustrato dalla genuina esuberanza della moglie e da una sessualità incompresa e repressa. Nello svilupparsi di Riflessi in un occhio d’oro, il soldato Williams diventa un oscuro oggetto di un desiderio che non riesce a decifrare, che sente svilupparsi tanto da procurargli “una sensibilità così acuta da sfiorare il delirio”. È la stessa ossessione che divora Elgee Williams, soltanto che le sue morbose attenzioni sono rivolte alla moglie del capitano. Espressione ultima della sua solitudine, è incantato e turbato dalla signora Penderton, o meglio dal suo corpo. Un’attrazione (fatale) che lo spinge ad avvicinarsi sempre di più, per osservarla, per carpirne i dettagli del volto, dei fianchi, delle gambe. Lubrificati da un rivolo continuo di alcol che scorre senza soluzione di continuità, con il contorno di festicciole casalinghe in cui vengono serviti (come minimo) “due prosciutti della Virginia, un tacchino gigante, polli fritti, maiale freddo, costolette a montagne e una quantità di sciocchezzine, cipolle in salsa, olive, ravanelli. E panini caldi e biscotti al formaggio serviti continuamente” e innescati dall’umore variabile di un cavallo accudito con troppe premure, i contrasti esplodono, infine, nella tragedia. Carson McCullers ha un approccio acuto, clinico, tagliente nel delineare i Riflessi in un occhio d’oro: usa le parole con parsimonia, ma in ogni singola frase ci ricorda che “la formazione di un’idea esige l’accostamento di almeno due fatti conosciuti”. Ecco, Carson McCullers dimostra, nella pratica della scrittura, che è davvero intima ai suoi personaggi, non tanto da deciderne il destino, ma da comprenderli fino in fondo, nel buio delle loro notti, al capolinea dei loro desideri. Una rarità, e un piccolo capolavoro.
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