La
California di Leonard Gardner non è l’El Dorado: il clima è
arido, povero, cupo e minaccioso e la boxe è un rimedio, una seconda
chance e un’ossessione in tutta la sua magnifica durezza. La
teatralità e il significato metaforico della lotta rimangono
marginali nella Città amara perché come scriveva Joyce Carol
Oates “se la boxe è uno sport, è il più tragico di tutti gli
sport perché consuma la maestria di cui fa sfoggio più di qualsiasi
altra attività umana, il dramma, nel suo caso, consiste proprio in
questo consumare. Esaurirsi nel combattere l’incontro più
importante della propria vita significa inevitabilmente iniziare una
discesa che la volta successiva potrebbe diventare un tuffo, una
caduta repentina nell’abisso”. Con uno stile aspro e asciutto, un
concentrato senza una parola in più, a Leonard Gardner non serve un
vocabolario particolarmente ricco, per puntare dritto al dettaglio,
al centro dell’azione, al movimento stesso, all’intricata natura della boxe. Un modo di mostrarla, più che di spiegarla, un
racconto della boxe attraverso la boxe con una sintonia perfetta nei
confronti delle attitudini, delle abitudini, delle scommesse, di tutte
le storie dentro il ring, ma anche fuori, perché il ring è una
forma di recinto che circoscrive lo spazio e il tempo, che non lascia via di
scampo, ma il pugilato avviene altrove, dove i protagonisti si
devono accontentare di lavori miserevoli, appartamenti spogli,
incontri fugaci che svaniscono nella tristezza e nella disperazione. Nella Città amara
lo spettacolo è al minimo sindacale, proprio lo stretto necessario,
perché per Ruben Luna, Ernie Munger, Billy Tully e, last but not
least, Arcadio Lucero, la boxe rappresenta l’idea di successo, la
strada verso la felicità, senza che nessuno osi chiedersi a quale
prezzo, in fondo. Non sono soltanto il sangue, le ossa rotta, la fatica
assurda, il sudore, le commozioni cerebrali, il dolore immane. Nella
Città amara il livello delle competizioni è tale che la
posta della vittoria non si distingue molto da quella della sconfitta
e Leonard Gardner trasmette con minuziosa precisione il travaglio di
questi uomini assediati dall’incertezza, predestinati all’errore,
alle scelte sbagliate, a perdere ogni occasione dignitosa eppure a
continuare a cercare nella boxe una soluzione. Una vocazione
autodistruttiva e suicida, che però ha fondamenta molto umane e
molto reali ed è ancora Joyce Carol Oates a coglierne
gli aspetti più sottili e drammatici: “Non può essere una
coincidenza che il romanzo più amato sulla boxe, Città amara
di Leonard Gardner, sia un romanzo non tanto sulla boxe quanto sulle
strategie dell’autoinganno. Una specie di manuale del fallimento,
in cui la boxe rappresenta l’attività naturale di uomini
totalmente incapaci di comprendere la vita”. La sua analisi sembra rfilettere l’eco delle
parole con cui, all’inizio di Fiesta, Ernest Hemingway
spiegava che a Robert Cohn non importava “niente della boxe, anzi
la detestava, ma l’aveva imparata, con fatica e fino in fondo, per
reagire a quel senso di inferiorità e insicurezza”. Ci sono uppercut che non si possono schivare e anche le finte e i trucchi più astuti non valgono più nella Città amara, amarissima di Leonard Gardner.
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