Il sogno di George e Lennie è semplice. Vivere “del grasso della terra”. Trovare un posto dove stare, allevare conigli. L’illusione di una terra promessa diventa una realtà nel momento stesso in cui ne parlano. “Abbiamo la nostra terra che è proprio nostra, e possiamo andarci a vivere” dicono, come se il potere delle parole fosse in grado di generare un miraggio tra la polvere e il letame. Ne sono circondati, ne sono prigionieri perché sono “la gente più abbandonata del mondo”, braccianti e viandanti, vagabondi e braccati che passano di fattoria in fattoria. Crooks, che vive in un fienile e che non può fuggire, perché nero e storpio, li definisce così: “Ho veduto centinaia di tipi arrivare per la strada e per i ranches, coi fardelli sulla schiena e la stessa idea piantata in testa. Centinaia. Arrivano, si licenziano e se ne vanno e tutti fino all’ultimo hanno il pezzetto di terra nella testaccia. E mai uno di loro che ci arrivi. E’ come il paradiso. Tutti quanti vogliono il pezzetto di terra. E’ solamente nella testa. Non fanno altro che parlarne, ma ce l’hanno solamente nella testa”. Se ne discutono George e Lennie, l’utopia rimane innocua. Lennie vorrebbe soltanto un cucciolo da accarezzare, mentre si concede tutte le sue fantasie sulla terra, e chiede a George di raccontargli ancora una volta quando “la panna sul latte sarà così spessa che la dovremo tagliare col coltello e prenderla con cucchiaio”. Quando l’argomento “un posto cento volte più bello di questo” diventa un tema condiviso con gli altri disperati, il contrasto voluto da John Steinbeck si rivela in tutta la sua potenza con il meccanismo delle parole spietato, teso, pronto a scattare come un colpo in canna a una Luger. D’altra parte, il sogno della moglie di Curley, il figlio del padrone, è più banale che semplice. Voleva essere un’attrice di Hollywood, una stella, e la sua presenza è una miccia che potrebbe innescare l’esplosione da un momento all’altro. Le componenti sono limitate, il racconto di Uomini e topi è perfetto negli scatti, nei piccoli collegamenti, nell’evoluzione drastica che porta al tragico finale. L’unico istante in cui John Steinbeck si concede un frammento di lirismo è una frase che funziona come una spaccatura continentale all’interno di Uomini e topi: “Come talvolta avviene, un attimo discese e si librò e durò molto più che un attimo. E il suono tacque e il movimento tacque, per molto molto più che un attimo”. Da lì in poi la dimensione sferzante dei dialoghi è ancora più scorticata, ed è tutto. Un concentrato di ferocia tradotto in sequenze ad alta tensione, ottenute soltanto con una disposizione essenziale delle parole e dell’uso che ne fanno i personaggi. Il confronto tra i protagonisti è una reazione a catena che implica e porta una conclusione inevitabile, come se non ci fosse via di scampo, come se le parole delimitassero un confine invalicabile. Il paradosso è che pur essendo viandanti, George e Lennie sono sempre nello stesso punto perché la storia di Uomini e topi è circolare: comincia proprio come e dove finisce, ma l’inizio e l’epilogo rappresentano gli opposti che, incatenati alla propria disperazione, si scambiano i ruoli. Il contesto storico e geografico, in particolare la dimensione americana, diventa persino relativa. John Steinbeck riesce a illuminare la fragilità dei rapporti umani, delle parole, delle illusioni che riescono a costruire. Il ciclo si ripete e si consuma: il quadro non è edificante, ma la scrittura riesce a trasmettere una sensazione di solidità perché è dentro quella cornice che succede tutto. Un classico.
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