venerdì 24 luglio 2015

Gregory Corso

Se Allen Ginsberg lo definiva “un fromboliere di parole” o, in alternativa, un “puro poeta immaginario”, lui stesso si definiva “non convenzionale”. E' un'identificazione che si adatta con naturalezza a chi scriveva versi come quelli di Ode alla Coit Tower: “Piansi per ciò che in me non era più sovrano e puzzava di sogni morti che ancora fingo di seppellire per schivare il verme della realtà”. Si capisce già così che non si può distinguere la poesia di Gregory Corso dalla sua fisicità, dall'estremità selvaggia del suo essere che si è rivelata in Benzina. Un uppercut senza esitazioni, che si svolge proprio per quello che è, il volto di un grande, coraggioso poeta che non temeva di mostrarsi, con tutti i suoi limiti e le sue visioni. Kennet Rexroth diceva che “Gregory Corso è un naïf genuino” e la sua risposta era un accordo in contrappunto: “Io scrivo senza pensarci, e scrivere così vuol dire scrivere con onestà, ma vuol dire anche scrivere in modo goffo. A nessun poeta piace essere goffo. Ma io ho deciso di fregarmene, finché ciò mi consente di dire la verità. Se nella mente del poeta c'è armonia allora anche la sua poesia sarà armoniosa”. Gregory Corso è il poeta dentro il poeta: l'immagine coincide con il suo riflesso scritto e declamato, la poesia e la vita si confondono una nell'altra, nessuna distinzione, nessuna soluzione, in un “premio di elettricità”, un flusso dei versi è un'alluvione di parole, La “poesia automatica” di Benzina è anche poesia da vedere, e da percepire (oltre che da leggere) e lo dichiarava in modo esplicito in Nemmeno una parola: “E' meglio che i suoi occhi parlino e ascoltino come vedono”. Anche questo è il frutto dell'intenzione di ribaltare il tavolo, scardinare le regole, e sconvolgere anche i re e i principi amici. Gregory Corso lo annunciava senza sottintesi in Ho 25 anni: “Io vi sono amico, ciò che eravate un tempo, in me sarete ancora, poi di notte nell'intimità delle loro case, strappare le loro lingue contrite e rubare le loro poesie”. La sua percezione, come molto altro, era condivisa naturalmente da Jack Kerouac, che stava lassù: “Sapendoci una vecchia trinità riverita, desideroso, naturalmente, da giovane poeta inedito ignoto ma molto geniale, di abbattere le grosse divinità stabilite e prenderne il posto, desideroso perciò anche delle loro donne, essendo libero da inibizioni e malinconie, almeno per il momento”. Quella componente naturale, romantica, anarcoide e irriverente è ammessa persino dallo stesso Gregory Corso in conclusione a Benzina con Il lamento di Zizi: “Non sono nulla senza la malattia del riso”. Proprio così: Benzina è la fonte di una serie di istantanee, di flash, e di emozioni poco o niente filtrate, una poesia immediata e immacolata, scintillante e incontrollata, prendere o lasciare. Molto beat, per niente battuto, Gregory Corso è prigioniero dello stesso mondo che ha creato con le sue liriche, la sua voce inimitabile. Raffiche di immagini che colpiscono senza sosta, un flusso di impressioni ed espressioni che è fisico (già) nel suo essere, sulla pagina. Con l'omaggio finale Per Miles (Miles Davis, of course) perché il suono è poesia, in quella notte che suonarono fino all'alba, lui e Bird, e prima ancora c'era stato Monk, nascosto in un piatto di piselli, così pare.

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