Se
Allen Ginsberg lo definiva “un fromboliere di parole” o, in
alternativa, un “puro poeta immaginario”, lui stesso si definiva
“non convenzionale”. E' un'identificazione che si adatta con
naturalezza a chi scriveva versi come quelli di Ode alla Coit
Tower: “Piansi per ciò che in me non era più sovrano e
puzzava di sogni morti che ancora fingo di seppellire per schivare il
verme della realtà”. Si capisce già così che non si può
distinguere la poesia di Gregory Corso dalla sua fisicità,
dall'estremità selvaggia del suo essere che si è rivelata in
Benzina. Un uppercut senza esitazioni, che si svolge proprio
per quello che è, il volto di un grande, coraggioso poeta che non
temeva di mostrarsi, con tutti i suoi limiti e le sue visioni. Kennet
Rexroth diceva che “Gregory Corso è un naïf genuino” e la sua
risposta era un accordo in contrappunto: “Io scrivo senza pensarci,
e scrivere così vuol dire scrivere con onestà, ma vuol dire anche
scrivere in modo goffo. A nessun poeta piace essere goffo. Ma io ho
deciso di fregarmene, finché ciò mi consente di dire la verità. Se
nella mente del poeta c'è armonia allora anche la sua poesia sarà
armoniosa”. Gregory Corso è il poeta dentro il poeta: l'immagine
coincide con il suo riflesso scritto e declamato, la poesia e la vita
si confondono una nell'altra, nessuna distinzione, nessuna soluzione,
in un “premio di elettricità”, un flusso dei versi è
un'alluvione di parole, La “poesia automatica” di Benzina
è anche poesia da vedere, e da percepire (oltre che da leggere) e lo
dichiarava in modo esplicito in Nemmeno una parola: “E'
meglio che i suoi occhi parlino e ascoltino come vedono”. Anche
questo è il frutto dell'intenzione di ribaltare il tavolo,
scardinare le regole, e sconvolgere anche i re e i principi amici.
Gregory Corso lo annunciava senza sottintesi in Ho 25 anni:
“Io vi sono amico, ciò che eravate un tempo, in me sarete ancora,
poi di notte nell'intimità delle loro case, strappare le loro lingue
contrite e rubare le loro poesie”. La sua percezione, come molto
altro, era condivisa naturalmente da Jack Kerouac, che stava lassù:
“Sapendoci una vecchia trinità riverita, desideroso, naturalmente,
da giovane poeta inedito ignoto ma molto geniale, di abbattere le
grosse divinità stabilite e prenderne il posto, desideroso perciò
anche delle loro donne, essendo libero da inibizioni e malinconie,
almeno per il momento”. Quella componente naturale, romantica,
anarcoide e irriverente è ammessa persino dallo stesso Gregory Corso
in conclusione a Benzina con Il lamento di Zizi: “Non
sono nulla senza la malattia del riso”. Proprio così: Benzina
è la fonte di una serie di istantanee, di flash, e di emozioni poco
o niente filtrate, una poesia immediata e immacolata, scintillante e
incontrollata, prendere o lasciare. Molto beat, per niente battuto,
Gregory Corso è prigioniero dello stesso mondo che ha creato con le
sue liriche, la sua voce inimitabile. Raffiche di immagini che
colpiscono senza sosta, un flusso di impressioni ed espressioni che è
fisico (già) nel suo essere, sulla pagina. Con l'omaggio finale Per
Miles (Miles Davis, of course)
perché il suono è poesia, in quella notte che suonarono fino
all'alba, lui e Bird, e prima ancora c'era stato Monk, nascosto in un
piatto di piselli, così pare.
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