Scritta nel 1957 e
rimasta avvolta nella polvere fino a qualche anno fa, Beat Generation è una commedia che fa onore al suo titolo.
E’ sgangherata, eccessiva, divertente, anche se ha una sua solidità nei
dialoghi sincopati che a vario titolo prendono forma con Buck, Milo, Tommy,
Manuel, Slim, Jule, Vicki, Irwin, Mezz, Cora e Paul. Una carrellata di
personaggi che bevono, giocano e più di tutto, come ha sottolineato A. M.
Homes, “vogliono sapere come e perché esistono e poi, in una specie di
combustione spontanea, alla fine arrivano a scoprire che una risposta non
esiste, esistono solo l’attimo in cui ci troviamo e le persone attorno a noi”.
Se il tema è in buona sostanza proprio quello, le improvvisazioni deviano
spesso e volentieri in sacrosanti voli pindarici fino a quando ci si chiede:
“Quante sabbie ci sono, che devono essere tolte dall’oceano Pacifico, ogni
volta che versi un milione di galloni di succo della gioia nel vuo dell’intero
spazio, e importa davvero qualcosa”. Dalla buca del suggeritore a quel punto
della pièce arriva un bisbiglio che dice: “(Beve)”, e non sono previste
controindicazioni. Le chiacchiere fluttuano inesorabili almeno quanto i
propositi di Jack Kerouac che erano, al solito, fantastici e magniloquenti
perché, prima di lasciarsi sfuggire Beat Generation in un angolo, e di
imbarcarsi in altre mirabolanti avventure, proclamava: “Quello che voglio è
rifare il teatro e il cinema in America, imprimere un moto spontaneo, rimuovere
i concetti imposti di situazione e lasciare che la gente vada a ruota libera come fa
nella vita reale. Ecco che cos’è questa commedia: non c’è una particolare
storia, non c’è un particolare significato, c’è solo il modo di essere delle persone. Ogni cosa
che scrivo è scritta immaginando me stesso come un angelo che fa ritorno sulla
terra e, tristemente, la vede com’è”. La direzione intrapresa è suggestiva ed è
la lettura di A. M. Homes a
renderla esplicita: “A differenza di quei reduci della seconda guerra mondiale
che, dopo essere tornati a casa, si erano sposati e trasferiti nei sobborghi,
abbandonandosi completamente al sogno americano e alla cultura rampante del di
più e di più, allargando a dismisura il loro stile di vita, la vita beat veniva
vissuta ai margini. I beat avevano poco da perdere e non molto in basso da
cadere”. E’ un’annotazione interessante perché riporta la Beat Generation alle sue radici blue collar: la
“guerriglia linguistica” di Jack Kerouac nasce dai bassifondi ed è per questo
che, come dice A. M. Homes, “Beat Generation è un dono, una caramella trovata sotto i cuscini di
un divano. Per quelli di noi che di Kerouac non ne hanno mai abbastanza, ecco
qualcosa in più”. Anche se non è molto, con “tutta questa mediocrità che è
entrata nella nostra vita negli ultimi tempi”, può sempre servire a guagnarsi
il “permesso di esistere”. Un piccolo dettaglio scenografico. Alla fine c’è un
flauto che suona. Lo immagino un po’ stridente e il profilo del jazzista
nell’ombra è quello di Roland Kirk.
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