lunedì 2 settembre 2013

Dara Horn

E’ il 1862 e la guerra di secessione è ormai penetrata a fondo nel tessuto umano e geografico dell’America, rivelando “una vasta landa selvaggia e vuota”. A Jacob Rappaport, che per evitare l’imposizione di un matrimonio si era arruolato nell’esercito dell’Unione, viene conferito un incarico segreto. La devozione alla causa e al massimo la riconoscenza di un “onore privato” lo portano ad assecondare le sue missioni in modo stoico, anche se ciò non gli impedisce di innamorarsi di Jeannie alias Eugenia Levy. Lei è bella, geniale, volitiva e irraggiungibile perché sta dall’altra parte della barricata. Tutte le altre sere è sospeso in un limbo di gesti che durano all’infinito e il suo mosaico è incorniciato in modo indelebile dalla figura controversa di Jacob Rappaport, “un soldato buono solo per le ritirate e le sconfitte”. Il suo struggimento, la sua lotta per una personalità sfuggente mantiene viva la brace, mentre nella cenere sparsa dalla guerra, si aggirano le multiple identità di uomini e donne in cui serpeggiano “piccole speranze, piccole paure, piccoli trionfi e fallimenti, tutti”. La scrittura di Dara Horn è decorativa, accattivante, seducente, coinvolgente, molto equilibrata e attenta, incisiva nei dettagli e inventiva nel linguaggio e negli artifici per tenere il lettore incollato alle pagine (che non sono poche), compresi i palindromi, gli anagrammi e i calembour di Rose, la sorella di Jeannie. Se il corpo principale di Tutte le altre sere è quello di un romanzo storico, va notata una parte consistente di melodramma alimentato da una love story impossibile, eppure la voce di Dara Horn è attenta alla dimensione psicologica dei personaggi, a partire dal protagonista Jacob Rappoport e non è un compito semplice visto che “buona parte dell’inganno è costituita dalla condiscendenza”. Se l’impianto, non privo di ambizioni, regge, è facendo forza su una trama ricca di nodi. Fin troppo, perché molti restano irrisolti e sommersi nel fitto tessuto di episodi e scene voluto da Dara Horn, a partire dalla guerra che è sempre in primo piano anche se, come dice un saggio interlocutore di Jacob Rappaport, “le guerre vanno e vengono, giovanotto. Vanno e vengono, e noi andiamo e veniamo con loro. Sono come il tempo, come una tempesta o una siccità. E noi non possiamo fare altro che cercare riparo e aspettare che passino”. Per dirla con la voce di un grande (grandissimo) poeta, Wallace Stevens, “la guerra è solo una parte di una totalità in tumulto” e Tutte le altre sere sembra la naturale estensione, ben calibrata, di quel lucido (e purtroppo sempre attuale) verso. Memorabile l’incipit, che rasenta la perfezione: “Dentro un barile sul fondo di un battello, con una borraccia d’acqua incastrata fra le gambe e un pacchetto di veleno nascosto in tasca, Jacob Rappaport avvertiva una stretta allo stomaco, non perché fosse sul punto di fare qualcosa di pericoloso, ma perché era sul punto di fare qualcosa di sbagliato”. Quattro righe e dentro si trovano già i motivi e i tempi di Tutte le altre sere.

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