giovedì 25 aprile 2013

John Cheever

La differenza tra giustizia e condanna è il varco in cui precipita Ezekiel Farragut. Per la legge è colpevole di aver ucciso il fratello in un raptus di follia, crimine che forse ha dimenticato o rimosso o che riteneva inevitabile. Oggi le condizioni del prigioniero di Falconer sarebbero giudicate sintomi o effetti del disturbo post-traumatico da stress, essendo Ezekiel Farragut un veterano della seconda guerra mondiale e un professore universitario e sono quelli i veri motivi della sua pena, la “tossicomania” e i “disordini sessuali”. John Cheever lo mette subito, nero su bianco, nelle prime pagine di Falconer, quando Ezekiel Farragut viene destinato al peggior lato del carcere (ammesso che ne esistano di migliori): “Ti hanno messo nel braccio F, F come fregnoni, fanatici, folli, figli di puttana, fessi, fantasmi, facce di merda, finocchi, fetenti. E come tante altre cose che ora non ricordo. Quello che ha steso la lista è morto”. La durezza della prigionia, la quotidianità collettiva condivisa con ricordi e presenze che evocano crimini efferati, l’assenza di pietà e la fredda essenza dei muri e delle sbarre sono una parte fondamentale di quella che John Cheever chiama la “stupida ostentazione del giudizio”. Per Ezekiel Farragut sono l’espressione formale di un’associazione spontanea tra ordine e caos, un contrasto che è il nucleo vitale ed elettrico da cui trae energia. Falconer, il carcere, dentro, diventa il riflesso della società, fuori, proprio perché come scriveva John Berger “quando raggiungono il limite estremo della disperazione, gli esseri umani trovano la saggezza, oppure sfuggono a ogni controllo, che si tratti di quello imposto da un sistema o del loro controllo su se stessi. L’incontrollabile e la saggezza sono rinchiusi nella stessa cella dietro la stessa porta della disperazione assoluta”. La personalità di Ezekiel Farragut e la sua evoluzione in carcere corrispondono alla perfezione: è un uomo in bilico, che vive le sue deviazioni sommando nel minimo comun denominatore autoindulgenza, cinismo e il naturale istinto per la sopravvivenza. Lo confessa senza sentire il bisogno di aggiungere troppa enfasi: “A questo punto non ti parlerei sommessamente e pazientemente se non fossi convinto che matematica e geometria sono un’analogia bugiarda e scorretta dell’indole umana”. Falconer resta un romanzo scomodo, tagliente, duro, perfetto nel suo sarcastico finale: è John Cheever al cubo, è John Cheever e nient’altro. Senza sconti, senza correzioni: “E’ scabro, è elegante, è puro” diceva Saul Bellow di Falconer, dove si trova l’essenza concentrata di quello che c’è fuori: “Tanti anni fa, quando hanno inventato la bomba atomica, la gente aveva paura che scoppiasse e facesse fuori tutti; non sapevano che l’umanità ha nelle budella tanta di quella dinamite da far saltare l’intero merdoso pianeta”. Dentro (e/o oltre), Ezekiel Farragut sa invece che la sua pena non ha fine dovendo vivere per sempre con se stesso, la stessa condanna di John Cheever.

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