Un idiota in cantina, il nome che aveva suggerito Jay McInerney per la sua rubrica di degustazioni, (qui raccolta per i posteri) avrebbe avuto più senso e non tanto perché sia offensivo o da intendersi come ignorante (che non lo è affatto, e questa è un’aggravante) ma quanto nell’etimologia propria del termine di chi non ha cariche pubbliche ed è lontano dalle scelte. Jay McInerney è rimasto intrappolato in una bolla di champagne, come se Le mille luci di New York non si fossero mai spente. E’ affascinante l’alterigia con cui affronta la scrittura disseminando in modo caotico i riferimenti colti, giusto per tenersi in equilibrio, e poi delimitando con brutale precisione una vita dove l’unica cosa capace di mandarlo è non trovare posto nel ristorante più à la page della sua città. Da una raccolta di articoli non si può pretendere di più e agli appassionati di vigne e vini I piaceri della cantina regalerà senza dubbio qualche motivo di soddisfazione o di risentimento, come è giusto che sia, perché i tema è, prima di tutto, soggettivo. La verità è che, anche entrando nello specifico, Jay McInerney sfiora appena l’elenco delle possibilità che con una certa spudoratezza sventaglia nell’introduzione. Quello che definisce “un argomento inesauribile, un viluppo di questioni che ci conduce, se decidiamo di approfondirlo, nei regni della geologia, della botanica, della meteorologia, della storia, dell’estetica e della letteratura” viene squadernato in un continuo sfoggio di celebrazione di una good life scintillante ed effervescente. Scivola sempre in superficie, prezzolato da importatori e distributori e addetti del marketing, sfiorando appena alcuni dei nodi filosofici e lirici che stanno in fondo a una bottiglia di vino. Per dire, viene da pensare cosa avrebbero scritto Hunter S. Thompson o David Foster Wallace di questo mondo bizzarro e affascinante di cui I piaceri della cantina coglie soltanto i pruriti, le apparenze, gli assaggi. Jay McInerney non solo è incastrato nel suo personaggio, come se non ci fosse altra vita fuori da New York e dal suo inner circle. Rimane ai margini anche quando potrebbe usare gli strumenti della letteratura (che non gli mancano) per raggiungere l’ebbrezza e per dare al lettore quelle indispensabili sollecitazioni, che si parli di vino o d’altro poco conta. Si limita invece a qualche citazione, troppo disparate per avere un senso e si diletta un po’ a fare il critico e l’enologo e molto di più a interpretare il ruolo del bon vivant. E’ questa la parte che gli riesce meglio, e va bene: è il tono che è sempre superlativo, è lo stile autoindulgente, è la forma che è ripetitiva. L’attenuante del ridotto standard della rubrica da cui arriva I piaceri della cucina potrebbe valere fino a un certo punto: pur nel florilegio di espressioni colte e raffinate di cui Jay McInerney fa sfoggio (fin troppo), il fraseggio e persino la scelta dei vocaboli sono limitati e annoiati. Stuzzicante, all’inizio, poi evanescente e infine con un retrogusto amaro che sa di rimpianto.
domenica 2 settembre 2012
Jay McInerney
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