mercoledì 25 luglio 2012

Stanley Booth

Il più felice riassunto del libro di Stanley Booth è quel verso di Rainy Day Women che dice “now everybody must get stoned”, che è l’unico modo per comprendere i Rolling Stones, gioco di parole finale compreso. L’esperienza di Stanley Booth, furiosa in corso d’opera, molto dolorosa poi, è la stessa vissuta, qualche anno prima, dal loro primo e genialoide manager, Andrew Loog Oldham: “Ho conosciuto gli Stones e ho appeso la mia vita all’attaccapanni”, ed è quello, né più né meno, il prezzo da pagare per seguire Le vere avventure dei Rolling Stones. Per Stanley Booth trovare il tono e il ritmo giusto per raccontarle è stato ancora più complicato essendo un lettore accanito di Geoffrey Chaucer, William Shakespeare, Jonathan Swift, Henry Miller, Walt Whitman, Stephen Crane, Robert Louis Stevenson, Mark Twain, Ernest Hemingway, William Faulkner, Dashiell Hammett, Raymond Chandler, James M. Cain, Eudora Welty, Flannery O’Connor, Evelyn Waugh, Vladimir Nabokov, Berry Morgan e dei “primi cinque romanzi” di Cormac McCarthy. L’elenco serve a descrivere le fonti di uno scrittore che si è fatto carico di immortalare in modo indelebile qualcosa che non riguarda soltanto Le vere avventure dei Rolling Stones: è l’ammissione di una sconfitta, di un fallimento come soltanto la letteratura concede, perché, come dice lo stesso Stanley Booth, “uno scrittore è sempre un outsider persino nella sua famiglia”. Figurarsi nei Rolling Stones a cavallo del 1969, un’orda famelica che sta attraversando un’America sul filo di rasoio di una guerra civile latente. Le due entità, volubili e misteriose allo stesso modo, si incontreranno ad Altamont ed è allora che Stanley Booth distilla l’amara ammissione che “eravamo convinti di essere diversi, di essere in qualche modo scelti, letti, destinati a ottenere successo, amore e felicità. Sbagliavamo”. La sua osservazione, senza rimpianti e senza rancori, arriva dopo aver vissuto nel ventre della bestia, seduto in aereo con Mick Jagger che gli confessa di essere “una merda bella grossa”, condividendo tutto (ma proprio tutto) quello che c’era da condividere con Keith Richards (e anche Gram Parsons) e soprattutto lottando con gli stessi blues, il giorno dopo, per molti giorni e molte notti di seguito. La storia, cercando di concentrare cinquecento pagine, è questa: “A prescindere da quello che sono oggi, o possano diventare in futuro, i Rolling Stones da giovani hanno messo più volte a repentaglio se stessi a causa di quello che erano, di come vivevano, di quello in cui credevano. In quegli anni, e a lungo, sono stato insieme a loro. Qualcuno è sopravvissuto a quell’epoca, qualcuno no” e Stanley Booth si lascia coinvolgere a narrare Le vere avventure dei Rolling Stones come se Jack Kerouac fosse stato fornito di un access all areas backstage pass (laminato in oro zecchino) per arrivare a cogliere, dal vivo, nel momento stesso in cui accade, una fondamentale conclusione: “Nel cuore di questa musica di avverte una tensione profonda verso una indefinita insurrezione in assenza della quale la musica muore”. Con tutto il rispetto dei Rolling Stones (siano benedetti), non soltanto rock’n’roll.

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