Il più inglese degli scrittori americani sbarca a Londra e si consegna senza scrupolo al suo destino raccogliendo in queste pagine, poi rimaste incompiute le riflessioni autobiografiche destinate a raccontare tutto un crepuscolo. Le paludate presenze nelle stanze di Londra, gli omaggi e le frequentazioni accademiche non impediscono a Henry James di abbandonarsi ai suoi esercizi di memoria, visto che dice in modo esplicito che “è per un ricordo conservato tra le sconnessioni e le differenze che coltivo oggi questa libera fantasia molto piacevole: ormai è affondato nel terreno il giavellotto con cui dovrei discendere negli anni passati, e vorrei che toccasse nel suo tragitto il maggior numero possibile degli strati, rintracciando ogni singola ruga sul vecchio volto di un tempo lontano, fino a ricomporlo dinnazi ai miei occhi, fornendo i materiali per un ritratto accessibile solo a coloro ch’erano presenti prima del cambiamento”. La trasformazione, che è nell’aria, ha l’acre odore della guerra che, inevitabile, è in arrivo in Europa, ma anche “a quanto sembra, parecchie cose interessanti che stavano succedendo in America” e da cui, comunque, Henry James sembra prendere le distanze. Non è soltanto l’oceano a dividerlo dall’America, ma anche la constatazione che un tempo è ormai passato, un’era si sta avviando a spegnersi tra mille, cupe incognite. Allo scrittore in trasferta nelle amate vie londinesi rimane l’aura di un ricordo brillante: “E noi ci abbandonavamo tutti a quella luce, lasciandoci irradiare con un senso di gratitudine e immergendovi le nostre giovani menti come non sarebbe mai più capitato in futuro. Il bello stava proprio nel fatto che esistevano dei punti di riferimento, e la raccomandazione di una persona o di un oggetto rappresentava ai miei occhi il più bell’ornamento possibile, una decorazione che permetteva di distinguere i singoli elementi (animati o inanimati che fossero) dalla massa”. Per quanto indefinita, l’Autobiografia degli anni di mezzo di Henry James è uno splendido taccuino di appunti in cui il grande scrittore americano, senza rinunciare alla sua prosa eccessiva e complessa, centellina le suggestioni di incontri e idiosincrasie, le “vane speranze giovanili” e quel tentativo di far sopravvivere l’interesse che “diventa così una lezione di vita” che è in realtà il tema fondamentale delle sue riflessioni. Più degli argomenti, possono le forme e non poteva spiegarlo meglio Virginia Woolf che proprio nel caso dell’Autobiografia degli anni di mezzo ha scritto: “Tutti gli scrittori, hanno ovviamente un’atmosfera in cui sembrano più sentirsi a proprio agio e dare il meglio di sé; una sorta di stato d’animo della mente che riescono meglio a indagare e descrivere, tanto che ci ritroviamo a leggerli più per questa ragione che per il valore intrinseco di qualunque altra vicenda narrata o personaggio o scena”. E’ senza dubbio questa la dimensione ideale e per quanto postuma e incompleta nell’Autobiografia degli anni di mezzo si sente tutta.
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