Per tre quarti di Un buon giorno per morire Sylvia, Tim e il nostro amabile narratore non fanno altro che bere, impasticcarsi, fumare e mangiare in un viaggio dall’andatura classica (dall’est all’ovest) e dal taglio basso (dal Key West al Grand Canyon). Provano anche ad amarsi, ma le stanze dei motel sono troppo piccole e il triangolo è una geometria decisamente spigolosa. Specie se la compagnia è formata da un veterano del Vietnam (Tim), dal suo piccolo grande amore del’adolescenza (Sylvia) e da un pescatore idealista plurilaureato disoccupato e vagamente autolesionista. Tutti e tre si ritrovano, ed è l’inizio degli anni Settanta, senza avere molto da dire o da fare e, vuoi per un motivo o per un altro, decidono di partire (normale, per essere americani) e di andare a far saltare una diga sul Grand Canyon. Un atto di sabotaggio dovuto perché lo sbarramento (ma, in poco tempo l’idea si allargherà a tutte le dighe degli Stati Uniti) impedisce la risalita delle trote iridate che non possono figliare e quindi, con grande disappunto dei nostri amici, non si possono nemmeno pescare. La trama, adatta ad un romanzo d’azione dai sentimenti ambientalisti (potrebbero essere i Sabotatori di Edward Abbey, per dirne una) non deve trarre in inganno. Il nostro trio di loser non agisce in virtù di uno spirito ecologico, non è legato ad alcun gruppo organizzato (e i risultati, come è facile intuire fin dall’inizio, non tardano), non ha un background tale da giustificare (per quanto sia possibile) il progetto di far saltare in aria una diga. Per loro è un’idea come tante, qualcosa a cui legarsi per non andare giù, verso un fondo che è sempre più vicino. Questa è la prima annotazione da fare su Un buon giorno per morire: Sylvia, Tim e il nostro anfitrione sono degli outsider, degli esclusi. Nemmeno emarginati: proprio buttati furoi da una civiltà che non tollera personalità improduttive, vagabondi, sognatori e disperati di varia forma e natura. L’attualità (cioè l’immediatezza) di Un buon giorno per morire non finisce qui e oltre alla totale confusione esistenziale dei protagonisti offre (e nemmeno tanto tra le righe) un punto di vista molto preciso su cosa voglia dire sognare. Meglio, esige una distinzione nelle tipologie dei sogni: da una parte ci sono quelli offerti dalla televisione (onnipresente, nel romanzo come nella realtà), dai lustrini del country & western alla radio, le ambizioni limitate e limitanti di un lavoro, una casa, una famiglia. Dall’altra parte c’è la fantasia divergente e dissonante di prendere un macchina, riempirla di birra, whiskey e altri additivi chimici per andare a disintegrare una diga. Gli estremi, in quel pasticcio di realtà che è la vita (come scrive Jim Harrison) sono questi e se è vero che la dinamite è sempre un mezzo un po’ troppo risolutivo è altrettanto significativo, come sembra di capire in Un buon giorno per morire, che sogni e miracoli vale la pena di inventarseli da sé, senza stare ad aspettare il pifferaio magico di turno. Last but not least, durante una delle tappe sulla strada Un buon giorno per morire offre una delle migliori definizioni di musica pop che siano mai state scritte. Tagliente, ironica, lucida, come è Un buon giorno per morire.
venerdì 2 luglio 2010
Jim Harrison
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento