
martedì 30 dicembre 2014
Harry Crews

sabato 27 dicembre 2014
T. C. Boyle
Gli amici degli animali si contendono la difesa dei fragili ecosistemi delle
Channels Islands, al largo della California. Dave LaJoy è un attivista
antipatico e insopportabile, ma è nel giusto perché si fa guidare da un solo
comandamento: non uccidere. Alma è politically correct, ma nei suoi interventi
di conservazione e/o ripristino c’è l’ambiguità della supponenza di poter
decidere il destino degli eventi naturali con strumenti artificiali, se non
proprio artificiosi. Il contrasto emotivo tra i protagonisti pare una
semplificazione, ma l’ordine delle cose non è così: c’è molta della condizione
isterica del nostro mondo che Gli amici degli animali interpretano, come se i tentativi, opposti e
speculari, con cui cercano di ripristinare il caos appartengano più ad
una dimensione empirica che scientifica, amplificata dalla particolare cornice
insulare e marina. Come scriveva Judith Schalansky nel bellissimo Atlante
delle isole remote: “L’isola appare un mondo sé
stante, ancora allo stato naturale originario, come il paradiso prima del
peccato originale, impudico ma innocente”. L’introduzione naturale o
artificiale (quale che essa sia) di una specie, implica il rischio,
l’eventualità, più che probabile, di una trasformazione repentina della vita,
di un ribaltamento della catena alimentare. E’ la storia (vera) del boiga
irregularis, che introduce il tema corrente tra Gli amici degli animali: è una bella creatura di tre metri che, arrivata in
modo fortuito sull’isola di Guam, si è moltiplicata per tre milioni e mezzo di
esemplari, trasformando l’isola in un nido di serpenti. Il dilemma della
sovrappopolazione e della convivenza (e della sopravvivenz)a di forme di vita
diverse sullo stesso, limitato pianeta è il nocciolo degli scontri che Gli
amici degli animali sovrappongono a battaglie di ego
insaziabili. E’ una storia dei nostri giorni, una storia paradossale, volendo,
che racconta i pericolosi malintesi che si accumulano nel convulso rapporto tra
l’uomo e la natura (o il suo consumo). L’idea al centro del corto circuito, che
il genere umano possa decidere di vita o morte su tutti, si rivela in modo
diverso e drammatico sia ad Alma che a Dave LaJoy e T. C. Boyle è molto lucido
nel far capire che, in realtà, l’unico deus ex machina è il caso. Gli amici
degli animali è avvincente nel ritmo,
essenziale nella scrittura, molto pertinente e urgente nel rivelare le
contorsioni del genere umano di fronte ai processi naturali, come se T. C.
Boyle avesse letto La natura delle cose nel De Rerum Natura di Tito
Lucrezio Caro: “Vediamo che la natura, nel dissolvere i corpi, libera i vari
elementi ma non li distrugge: se no tutto potrebbe cessare all’istante di
esistere se contenesse in se stesso qualche elemento mortale non occorrendo che
giunga una forza a dividere le parti di cui si compone e a disfarne la trama”.
Come diceva T. C. Boyle in un’intervista: “Io penso che tra 50 anni andrà a
finire come raccontava Cormac McCarthy con La strada. Noi mangeremo tutto e quando non ci sarà più nulla,
ci mangeremo l’un l’altro. Ma il mio piano, personalmente, è morire. Questo è
come affronto la questione”. Non è l’unico omaggio a un grande scrittore che
riserva T. C. Boyle: Gli amici degli animali cela anche un tributo per La fiera dei serpenti di Harry Crews utile a comprenderne il finale, beffardo
e perfetto.
martedì 23 dicembre 2014
Don DeLillo
Si può leggere La stella di
Ratner come un’inconcludente teoria di
scrittura, fine a se stessa: un’elaborazione infinita del rapporto (non del
tutto improbabile) tra lettere e numeri, visto che lo stesso Don DeLillo ha
ammesso di aver “provato a scrivere un romanzo che non solo avesse la
matematica tra i suoi argomenti, ma che, in un certo senso, fosse esso stesso
matematica. Doveva incarnare un modello, un ordine, un’armonia: che in fondo è
uno dei tradizionali obiettivi della matematica pura”. Il sistema è solo
un’apparenza, un abbaglio o un miraggio: La stella di Ratner ha piuttosto le sembianze di un tema jazzistico su
cui piovono improvvisazioni, interludi e incognite assortite. La trama è
sintetizzata, ormai a metà del romanzo, dallo stesso DonDeLillo: “L’ombra
dell’era matematica moderna prese a stagliarsi sulle pareti imbiancate
suppergiù in contemporanea con il manifestarsi dello spirito della
ghigliottina, turbando i sogni di un esile fanciullo che in seguito si sarebbe
distinto per precisione, sgomberando con maestria il flusso regolare
dell’analisi di tante incertezze”. Si chiama Billy Twillig e sarà il genio
principale di una cosmopolita task-force incaricata di decifrare un messaggio
proveniente dai dintorni della stella di Ratner. Endor vive in un buco e mangia
larve, Hoad arriva in elicottero, Otmar Poebbels è il suo superiore ed è
seguito in ordine sparso da Simeone Goldfloss, Desilu Espy, Harouh Farad,
Kidder, LoQuadro, Mutuka alias Gerald Pence, Hoy Hing Toy e poi Celeste Dessau,
U.F.O. Schwarz, Shirl Trumpy, Viverrine Gentian, Rahda Hamadyad, Armand
Verbene, Siba Isten-Esru fino a contrazioni come Grbk o Troxl. La lunga trafila
di nomi, più che di personaggi con identità vere e proprie è una sequenza
linguistica parallela al corso aritmetico e algebrico. Con tutti loro (visto
che “i nomi raccontano storie”), Don DeLillo mette il piccolo “mago dei numeri”
al centro di un labirinto narrativo. Una folle danza di parole che comprende
“una modalità di esistenza subidiotica” piuttosto che “un’indagine sui composti
silfizzanti esoionici” o una non meglio identificata “repressione analogica
ideativa”. Un rumore bianco di perversa ironia: più ci si addentra
nell’underworld della strampalata comunità scientifica che cerca di decifrare
il messaggio alieno e più è evidente il ruolo (provocatorio) dei giocatori. A
partire da Don DeLillo “in orbita” (la definizione è usa) con la rivoluzione
che compie La stella di Ratner attorno
ai suoi romanzi: in fondo, è il frutto di “uno spionaggio poetico praticato dai
sensi per contrastare il sospetto di vuoto che alberga in noi riguardo
all’esistenza stessa”. Marshall McLuhan, una decina d’anni prima che La
stella di Ratner apparisse all’orizzonte,
diceva che “il medium è il messaggio”. Don DeLillo sostiene che “forse non
esiste alcun messaggio” e tutto quello che facciamo “in realtà, è imporre i
nostri limiti concettuali a un argomento impossibile da concludere entro i
confini delle nostre conoscenze attuali. Ci parliamo intorno. Emettiamo suoni al fine di rassicurarci. Tentiamo
di sbucciare i sassi”. Quanto agli extraterrestri, siamo sicuri che Don DeLillo
è sempre d’accordo con il famoso parere Arthur C. Clarke: “La miglior prova
dell’esistenza di forme di vita intelligente nello spazio cosmico è il fatto
che non sono mai venute da noi”. Un paradosso, ma nemmeno tanto.
domenica 21 dicembre 2014
William Carlos Williams
Paterson è una città cresciuta per accumulo, nell’arco di
vent’anni, dal 1946 (anche se le sue radici arrivano fino al 1926) al 1963, un
work in progress che William Carlos Williams ha sviluppato partendo da
un’ipotesi quasi matematica nella sua dimostrazione: “Cerca il nulla, sbaraglia
il tutto, l’N di tutte le equazioni, quella roccia, il vuoto, che le sostiene,
una volta strappato via, la roccia è la loro caduta. Cerca quel nulla, che sta
oltre ogni visione, la morte di ogni cosa che sta oltre, oltre ogni essere”.
Tutto comincia con le domeniche d’estate a Paterson, New Jersey, le conversazioni open air, il
pulviscolo sfuggente della quotidianità, la semplicità di una passeggiata sotto
gli alberi. La realtà rientra nelle parole in modi misteriosi e, come scrive Octavio
Paz, i versi di William Carlos Williams sono “fiori immaginari che operano
sulla realtà, ponti istantanei tra gli uomini e le cose. Ed è così che il poeta
fa del mondo un luogo vivibile”. L’edificazione di Paterson procede fluttuando nel tempo visto che la città “un
luogo è fatto di ricordi al pari del mondo che lo circonda” e coincide con “la
fantasia che non si può scandagliare”. William Carlos Williams avanza senza
esitazioni: non cerca la “sporca argilla”, vuole il “prodotto finito”, la
pietra d’angolo su cui innalzare un tempio degno della capitale di un sogno, di
un’idea, di una rivoluzione. Il genio sta nell’abbandono, nell’inseguire un
miraggio, in fondo, nell’estrema consapevole per cui “noi non sappiamo nulla,
salviamo la danza: il ritmo è tutto ciò che abbiamo”. La materia prima, la
parola, ricostruisce sulle fondamenta di Paterson “l’affinità tra la mente dell’uomo moderno e una
città”. E’ una svolta epocale del ventesimo secolo: nell’interpretazione di
William Carlos Williams “un uomo in sé è una città e inizia, cerca, realizza e
conclude la sua vita in modi personificabili nei vari aspetti di una città”, e
nessuno, come lui, ha tradotto in poesia questa simbiosi. Come una marea, Paterson avanza e scompare, mostra e nasconde, parte e ritorna
rispondendo a quella sensazione “anfibia” che, secondo Octavio Paz “unisce e
allo stesso tempo ci separa dalle cose. E’ la porta attraverso cui entriamo
nelle cose ma anche uscendo dalla quale facciamo nostra l’idea che noi stessi
cose non siamo. Perché la sensazione lasci il passo all’oggettività delle cose
essa deve a sua volta trasformarsi in oggettività. Il linguaggio è l’agente di
questa trasformazione: le sensazioni diventano oggetti verbali. Una poesia è
dunque un oggetto verbale, fusione di due proprietà tra loro in contraddizione:
la vitalità delle sensazioni e l’oggettività delle cose”. Paterson è quello, è tutto proprio perché, come scrive William
Carlos Williams, “tratti via dalle strade noi rompiamo la clausura della mente
e siamo presi dal vento dei libri, cercando, cercando nel vento, finché non
sappiamo più quale sia il vento quale il potere del vento su di noi che porta
la mente lontano”. Da leggere, rileggere, consultare come un vocabolario
magico.
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