lunedì 9 agosto 2021

Jordan Farmer

L’essere umano è costituito in larga parte di acqua, anche quando deve condividere le deformità del corpo, come succede a Hollis Bragg, songwriter talentuoso e tormentato e ritiratosi a vita privata, ben sapendo che “la musica è l’unica forma d’arte che ti permette di nasconderti”. Di motivi per rifugiarsi nell’anonimato ne ha parecchi: un’infanzia permeata dalla figura funesta del padre, un ambiguo predicatore e il legame con Angela Carver, interprete delle sue canzoni e per un breve quarto d’ora, compagna nel successo. Le loro storie sono come placche tettoniche che muovendosi un flashback dopo l’altro, generano quel particolare attrito che muove Un diluvio di veleno con un ritmo sincopato e rocambolesco che tocca una realtà ineluttabile e la marchia di rosso. Hollis Bragg è testimone involontario dello scempio compiuto a Coopersville, dove le falde acquifere sono state intossicate da un gravissima perdita di sostanze chimiche. La Virginia occidentale è un territorio particolarmente bersagliato dai veleni, come già è stato ben illustrato in Dark Waters, il film based on a true story di Todd Haynes che  raccontava l’inquinamento da acido perfluoroottanoico rilasciato dalla DuPont. Quello che succede con Un diluvio di veleno non è dissimile, solo che invece delle aule dei tribunali, a Coopersville si passa alle vie di fatto e una strana rock’n’roll truccata da film horror, decide di punire il responsabile del disastro ecologico. Suo malgrado, Hollis Bragg viene coinvolto nell’esecuzione del complotto, che sovrappone (almeno) tre piani simbolici. Le maschere dei giustizieri vanno consumandosi mentre la violenza, che è l’elemento più tossico, prende il sopravvento. I conflitti con i padri, che assillano un po’ tutti i personaggi, svelano un senso del tempo sfuggente, che le devastazioni della terra ormai segnano come un conto alla rovescia irreversibile. Infine, il guado ripetuto più e più volte verso casa, è per Hollis Bragg un sorta di ordalia verso la salvezza che è rappresentata dalla musica. È l’elemento che compensa e mitiga le sferzate ballardiane di Jordan Farmer, che lascia ammettere al suo songwriter preferito che “le vere canzoni, quelle che si impiantano nel profondo di ognuno di noi, sono quelle che ci sembra di conoscere da sempre. Sono diverse l’una dall’altra eppure danno istintivamente conforto come la voce di una madre”. È proprio lì che va cercato il senso di Un diluvio di veleno, quando Hollis Bragg dice: “nella mia immaginazione, l’uomo sta suonando per il bambino la stessa canzone che usava cantare a una donna quando gli alberi germogliavano in primavera, quando le stagioni come la primavera esistevano ancora e c’erano ancora i prati verdi su cui sdraiarsi”, è inevitabile tornare a ricordare quello che Rachel Carson scriveva in Primavera silenziosa: “L’acqua va anche considerata dal punto di vista di tutta quella catena di esseri viventi che da essa trae nutrimento, dal pulviscolo di verdi cellule noto come il nome di fitoplancton alle minuscole dafnie ed ai pesci che filtrano il plancton per il loro nutrimento e sono a loro volta divorati da pesci più grossi, o da uccelli e procioni, e si snoda in un ciclo continuo di dare ed avere da un individuo ad un altro. Sappiamo che i minerali presenti nell’acqua passano attraverso tutta la catena alimentare. Come non pensare che le sostanze nocive immesse nell’acqua entrino in gioco anche in questi cicli naturali?”. È quello che lascia intendere Un diluvio di veleno: è una civiltà morente quella che uccide i fiumi.

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