Siamo a Spring Falls, nello stato di New York, dove tutti sanno tutto di tutti ed è impossibile fuggire agli sguardi. Il clima è impervio, l’inverno dura per tre quarti dell’anno, i boschi si estendono inestricabili, la speculazione edilizia è in agguato, gli outsider vagano immersi in un’atmosfera densa di antidolorifici e alcol, o si nascondo ai margini, nelle ombre. Questo è il milieu dell’America suburbana e Kateri Fisher ci arriva da Syracuse, dopo un brutto incidente, che le ha lasciato cicatrici profonde, e non solo sulla pelle. È un’agente di polizia, una donna sola, come sono sole tutte le donne che popolano Gli osservati. È sola Pearl Jenkins, che è sopravvissuta all’incendio della sua casa con il figlio Shannon. Il marito, Park, è in carcere per averlo appiccato, e così ha voluto la giustizia dello stato. Pearl ha avuto un’altra figlia, Sparrow Annie Jenkins alias Birdie, ma la tiene nascosta, e ha i suoi motivi per farlo. Ci sono traumi che è meglio evitare e, per tenere insieme la famiglia, dice Shannon “ci accettavamo a vicenda per quello che eravamo e non facevamo domande”. Il caso che deve affrontare Kateri matura proprio dentro quei silenzi: Pearl scompare, la casa è imbrattata di sangue, Birdie viene scoperta in uno ripostiglio. È solo l’inizio di una storia labirintica, dove tutto ruota attorno a un pugno di personaggi che, nelle singole solitudini, si riflettono uno nell’altro, una nell’altra. Così l’ambiguo Bear Miller, che gestisce le attività immobiliari della madre e ha intravisto un’obiettivo nei terreni di Spring Falls, trova un corrispettivo in Shannon. In altri modi, Kateri deve confrontarsi con il collega, Hurt (e anche i nomi nascondono e/o rivelano un ulteriore percorso che si snoda attraverso Gli osservati) per districarsi in una coltre di desolante freddezza condita da rabbia, rifiuti, abbandoni, violenze. Jennifer Pashley non molla la presa nemmeno per sbaglio, il ritmo è serrato e i dialoghi sono frustate, ma sullo sfondo c’è il contrasto, ed è sempre più nitido nell’inoltrarsi del romanzo, tra l’America dei Miller e dei loro avvocati, una versione più edulcorata e appariscente dei predatori nelle foreste e quella dei Jenkins, che cerca di tirare avanti ai limiti della sussistenza. L’attrito è inevitabile perché i desideri e le speranze, le ambizioni e i sogni sono destinati a incrociarsi, ma non hanno una terre comune da condividere. È proprio lì che Kateri e Hurt devono intervenire, cercando di dipanare una matassa di dubbi, provando a cogliere l’innocenza nascosta nell’oscurità, provando a non farsi sorprendere dai segreti occultati negli angoli di famiglie traballanti di “poveri bianchi del cazzo”. La trama del thriller è seguita da Jennifer Pashley con una discrezionalità particolare: gli elementi classici sono tutti al loro posto, ma interpreti e ruoli, nello specifico (e semplificando) vittime e carnefici, sono intercambiabili ed è questo che genera l’incalzante sequenza di sorprese che Gli osservati riserva fino al finale. Nel complesso, Kateri Fisher ha il ruolo dell’anfitrione ed essendo un personaggio che, nelle sue sofferenze, riesce a condensare un po’ tutti gli altri, è facile intuire che potrebbe essere soltanto un primo episodio di una (si spera) lunga serie. Ma è anche il simbolo di un’America disorientata, di fronte a divisioni sempre più radicali e brutali, che Jennifer Pashley sa intravedere e poi manifestare, senza un accenno di moralismo, solo mostrando attraverso un linguaggio aspro, martellante eppure congruente, i limiti estremi di una civiltà ossessionata dal successo non meno che dal fallimento.
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