In Breve storia dell’ubriachezza, una stringata e ironica analisi sulle vicende dell’euforia alcolica, Mark Forsyth attribuisce alla birra attributi e potenzialità ancora più complessi di quelli descritti da Tom Robbins, con un grado di incidenza significativo negli annali storici “Prima ancora di essere umani, siamo stati dei bevitori. L’alcol esiste in natura ed è sempre esistito. Quando la vita è cominciata, quattro miliardi e rotti di anni fa, c’erano microbi unicellulari che sguazzavano felicemente nel brodo primordiale, nutrendosi di zuccheri semplici ed espellendo etanolo e anidride carbonica. Pisciavano birra, in sostanza”. È una definizione che poteva stare benissimo nel racconto di Tom Robbins e va ricordato che, al pari del vino, la birra serve per evocare “lo spirito di cose assenti”, come diceva Roger Scruton in Bevo dunque sono, e resta un diversivo notevole, che serve a moltiplicare le congetture dell’esistenza degli uomini e delle donne. Più che il rapporto con l’infanzia, impersonato dalla curiosissima Gracie, che riesce a sollevare una lunga serie di quesiti sull’essenza stessa della birra, è la sua voglia di andare alla scoperta del mondo a determinare l’andamento della favola di Tom Robbins. La birra resta un piccolo (ma diffusissimo) espediente per raccontare come gli adulti bramino “l’alternativa alla realtà insoddisfacente che gli uomini si sono costruiti da soli, nella quale si sentono rinchiusi come in un segreta”. La birra è il viatico e la chiave che apre quella porta e la colorita fiaba, completa di cattivi che spuntano nella selva, è divertente e aggraziata, per niente imperdibile, ma ha un suo gusto, diciamo come la schiuma sopra il bordo del boccale, giusto per restare in tema. Nel descrivere la composizione chimica della bevanda, la sua intima natura, Tom Robbins sa essere esilarante, ma anche esaustivo e nell’insieme la favola morale sugli usi (e abusi) e costumi della birra è un po’ naïf, ma è pur sempre divertente, e non priva di alcuni specifici riferimenti scientifici e storici. Anche la fata della birra ha dei fondamenti nel folklore popolare (una figura leggendaria non dissimile volteggiava sopra la nobiltà egizia, per dire), soprattutto nel guidare verso quel mistero che è “tutto. E niente. Allo stesso tempo. A cosa assomiglia l’elettricità all’interno dei tuoi atomi? Qual è l’aspetto del per sempre e del riso e della libertà? È la faccia che tutti condividevano prima di nascere, è la barzelletta che tutti capiranno dopo essere morti. È il significato del significato, l’altro senza altro ancora, il chi di cui non esiste chi più grande”. Nel suo procedere, la saga della birra trova una concessione alla poetica di Tom Robbins che, anche in un contesto vagamente inconcludente, riesce a piazzare la sua zampata, dando forma a un’osservazione sognante: “Quando guardi nella nebbia e nella pioggia, fuori dalla tua finestra, non ti senti a volte come se nella vita ci fosse qualcosa di più di quello che rappresentano la televisione, il centro commerciale, l’asilo o perfino la tua famiglia? Come se ci fosse qualcosa di più grande e più strano, più vivo, libero e reale di quanto può offrire la normalità? Qualcosa che si trova oltre? E che sembra chiamarti, chiamarti anche se non conosce il tuo nome, il tuo indirizzo, se non sa quanti anni hai, senza dare importanza al fatto che tu ti sia lavata le orecchie o abbia finito i piselli?”, e la domanda è rivolta a Gracie che deve vedersela con lo zio Moe e Madeleine Proust, gli elfi dello zucchero, la differenza tra stout e pilsner alla ricerca di un senso che resta delizioso e impalpabile come il primo sorso di birra.
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