Kacey e Michaela Fitzpatrick vivono a Philadelphia, o meglio nel quartiere di Kensington Avenue, un buco nero, dove tutto è concentrato sull’uso e l’abuso degli stupefacenti, con l’eroina in cima alla lista della spesa. Crescono senza genitori (la madre morta per la droga, il padre scomparso), nella casa fredda e inospitale della nonna, e devono inventarsi una complessa serie di rituali per sopravvivere, e una mutua protezione, anche se poi la separazione diventa inevitabile. È una frattura che determina tutto quello che succede sotto I cieli di Philadelphia ed è giusto che a a spiegarlo sia Mickey alias Michaela in prima persona: “In quel momento mi resi conto che eravamo a un bivio. La mappa delle nostre vite si stendeva davanti a noi e io vedevo con molta chiarezza i diversi sentieri che avrei potuto imboccare, e in quale maniera queste scelte avrebbero influito su mia sorella. Con il senno di poi, naturalmente, la strada che scelsi fu quella sbagliata”. Forse era solo obbligata: mentre Kacey scivola nei gironi danteschi dell’Avenue, Mickey entra nella polizia. Un classico, se non proprio un cliché, soltanto che nel caso delle sorelle Fitzpatrick la distinzione dei ruoli non corrisponde a una corretta interpretazione dei valori, più o meno ragionevoli. Per Kacey, come per tutti, “il tempo trascorso in preda alla tossicodipendenza è come un loop. Ogni mattina porta con sé la possibilità di un cambiamento, e ogni sera la vergogna del fallimento. L’unico obiettivo è trovare la dose. Ogni dose è una parabola, sali, scendi, sali, e ogni giornata è una serie di queste onde, e poi, a seconda di quanto piacere o dolore provi, diventa possibile descrivere i giorni e i mesi come un grafico”. In effetti, non resta molto da raccontare: questo continuo entrare e uscire, un ciclo che annulla la dimensione temporale, è ribaltato da Liz Moore nello schema a corrente alternata, tra allora e adesso con cui ha composto I cieli di Philadelphia. Il tema del doppio, una delle ombre fisiologiche della tossicodipendenza, si moltiplica: sono due le sorelle, sono ambigui i poliziotti, sono sempre distinte le scelte. Quando una catena di omicidi tra le giovani donne, mette in allarme le strade di Philadelphia, Mickey si ritrova coinvolta in prima persona, ma in ogni suo passo è evidente che “il caos prende sempre il sopravvento, anche quando gli viene sottratto lo spazio”. È circondata da poliziotti che alimentano i suoi dubbi, è maldestra e finisce a sua volta sotto inchiesta, ha un figlio da accudire, Thomas, e la sorella da trovare, prima che sia troppo tardi, ma sa che tra i tossicodipendenti “nessuno di loro vuole essere salvato. Vogliono tutti sprofondare nella terra, essere inghiottiti, continuare a dormire”. Lo stato di abbandono delle persone si sovrappone a quello degli edifici e dei quartieri che Liz Moore delinea con scrupolo realistico, con una scrittura essenziale e precisa tesa a sottolineare a più riprese come il degrado urbano sia contiguo e parallelo alla decadenza umana. La desolazione è palpabile, ma è difficile trovare un romanzo che parli della tossicodipendenza come I cieli di Philadelphia: Liz Moore ha l’infinito pregio di risparmiarci le implicazioni morali, non obbligatorie, e di introdurci, con tutte le titubanze, gli errori e la fragilità di Mickey, in un territorio dove una gravità malata (la definizione nasce dalla lunga esperienza sul campo di Jim Carroll) rallenta non soltanto i movimenti, ma la percezione stessa della realtà. Se resta un residuo di speranza, va trovato nel legame tra Mickey e Kacey, ma l’atmosfera che riempie I cieli di Philadelphia è roba pesante, e ci vuole un bel coraggio per raccontarla come ha fatto Liz Moore: con partecipazione, senza nascondere nulla e aggiungendoci quel po’ di accortezza necessaria ad affrontare la vita nelle strade, nella fiction così come in Kensington Avenue, quella vera.
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