L’America
è Messico, è Panama, Paraguay, Puerto Rico, Venezuela, e l’elenco
delle origini è il regalo che Alma, Arturo, Maribel, Mayor, Rafael
Toro, Benny Quinto e Adolfo “Fito” Angelino e altri vicini di
casa si fanno un giorno di Natale, mentre il riscaldamento non
funziona e loro provano a festeggiare, comunque. E’ uno dei rari
momenti in cui una fragile forma di comunità riesce a prendere forma
nel limbo narrato da Cristina Henríquez, dove tutti i personaggi
sono “lacerati tra il desiderio di guardarsi indietro e quello di
esistere senza alcun legame nella nuova realtà che si erano creati”,
proprio lì in mezzo. Un dilemma irrisolvibile: per scoprire le loro
radici devono allontanarsene e il sogno dell’America si risolve,
nel migliore dei casi, in una povertà dignitosa, fatta di rimedi ed
espedienti, “le ciambelle che avanzano”, l’entrata “laterale”
al cinema, e di lavoro durissimo per qualche dollaro. La narrazione,
asciutta e sincopata di Cristina Henríquez parte e ritorna sempre su
piccoli dettagli quotidiani: una bolletta, un pranzo o una cena,
minuscole conquiste, immense fatiche, la più dura, quella di una
gratitudine obbligatoria perché come dice Alma, moglie, madre e
principale anfitrione di Anche noi l’America:
“A quel tempo volevamo soltanto le cose più semplici: mangiare del
buon cibo, dormire sereni la notte, sorridere, ridere, sentirci bene.
Ci sembrava di averne diritto, noi come chiunque altro. Certo, se ci
penso adesso, capisco quanto sia stata ingenua. Ero accecata da un
moto di speranza e dalla promessa del possibile, convinta che nelle
nostre vite non fosse rimasto più nulla in grado di andare storto”.
Quando i Rivera (con Alma, Arturo e Mirabel) giungono nel Delaware,
hanno già sepolto i dubbi nell’estenuante odissea dal Messico e,
pur avendo tutti i requisiti e i connotati per essere accolti come
cittadini americani, si accorgono, e la prima è ancora Alma, che le
speranze diventano sempre più ingombranti: “Da molto tempo
progettavamo la nostra vita qui. Riempire i moduli, sperare, pregare,
aspettare. Avevamo appuntato tutti i nostri sogni su questo luogo,
con uno spillo sottile e fragile, ed era troppo presto per dire se
fosse più forte di quanto sembrava o se alla fine non avrebbe
resistito”. Per loro l’esodo è stato obbligatorio: Mirabel ha
subito un danno cerebrale, ha bisogno cure e scuole particolari. I
suoi limiti, nella memoria e nella parola, non sono molto diversi da
quelli dei migranti, e la delicata love story tra lei e Mayor, piano
piano, diventa il cuore di Anche noi l’America
che poi è un racconto corale, frammentato in tante voci. Ci sono un
sacco di momenti che passano in piccole inquadrature, istantanee,
ricordi di molte solitudini. I singoli capitoli sono piccoli
racconti, potrebbero vivere una vita autonoma, sono come sospesi in
un terra di nessuno, così come nel quartiere appaiono confini
inviolabili, per quanto non segnalati, ma non meno pericolosi. Per
qualcuno, in effetti, la condizione di “americani invisibili”
significa che “tutti gli altri devono obbedire alla legge e basta.
Noi dobbiamo rispettarla due volte”. E’ in quel momento che le
vite e le storie vengono risucchiate nelle strade, gli uomini perdono
il lavoro, le donne si accorgono di aver perso “la metà di tutto
quello che avevamo. Sparita così, in un attimo” e tutti cominciano
a chiedersi: è o non è l’America? Ma cosa è casa, in quale
lingua si possono esprimere i sogni? Restano aggrappati ai nomi dei
cibi, alle canzoni, alla nostalgia perché come dice Alma: “Avevamo
impacchettato la nostra vecchia vita e l’avevamo lasciata indietro,
poi ci eravamo precipitati verso una nuova esistenza con poche cose,
noi stessi e la speranza”. Non è abbastanza nell’America del
ventunesimo secolo: l’istinto di ogni migrante, “che nasce dalla
mancanza o dal desiderio”, come dice Arturo, genera quel miraggio,
infine svelato da Anche noi l’America.
Un romanzo toccante, attualissimo, e importante. Consiglio per la
colonna sonora: usare i Los Lobos in abbondanza (in particolare The
Neighborhood e The
Town And The City), impeccabili, almeno
quanto Cristina Henríquez, nel raccontare le vite in esilio, ed è
così che va chiamato.
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