giovedì 19 maggio 2016

Cristina Henríquez

L’America è Messico, è Panama, Paraguay, Puerto Rico, Venezuela, e l’elenco delle origini è il regalo che Alma, Arturo, Maribel, Mayor, Rafael Toro, Benny Quinto e Adolfo “Fito” Angelino e altri vicini di casa si fanno un giorno di Natale, mentre il riscaldamento non funziona e loro provano a festeggiare, comunque. E’ uno dei rari momenti in cui una fragile forma di comunità riesce a prendere forma nel limbo narrato da Cristina Henríquez, dove tutti i personaggi sono “lacerati tra il desiderio di guardarsi indietro e quello di esistere senza alcun legame nella nuova realtà che si erano creati”, proprio lì in mezzo. Un dilemma irrisolvibile: per scoprire le loro radici devono allontanarsene e il sogno dell’America si risolve, nel migliore dei casi, in una povertà dignitosa, fatta di rimedi ed espedienti, “le ciambelle che avanzano”, l’entrata “laterale” al cinema, e di lavoro durissimo per qualche dollaro. La narrazione, asciutta e sincopata di Cristina Henríquez parte e ritorna sempre su piccoli dettagli quotidiani: una bolletta, un pranzo o una cena, minuscole conquiste, immense fatiche, la più dura, quella di una gratitudine obbligatoria perché come dice Alma, moglie, madre e principale anfitrione di Anche noi l’America: “A quel tempo volevamo soltanto le cose più semplici: mangiare del buon cibo, dormire sereni la notte, sorridere, ridere, sentirci bene. Ci sembrava di averne diritto, noi come chiunque altro. Certo, se ci penso adesso, capisco quanto sia stata ingenua. Ero accecata da un moto di speranza e dalla promessa del possibile, convinta che nelle nostre vite non fosse rimasto più nulla in grado di andare storto”. Quando i Rivera (con Alma, Arturo e Mirabel) giungono nel Delaware, hanno già sepolto i dubbi nell’estenuante odissea dal Messico e, pur avendo tutti i requisiti e i connotati per essere accolti come cittadini americani, si accorgono, e la prima è ancora Alma, che le speranze diventano sempre più ingombranti: “Da molto tempo progettavamo la nostra vita qui. Riempire i moduli, sperare, pregare, aspettare. Avevamo appuntato tutti i nostri sogni su questo luogo, con uno spillo sottile e fragile, ed era troppo presto per dire se fosse più forte di quanto sembrava o se alla fine non avrebbe resistito”. Per loro l’esodo è stato obbligatorio: Mirabel ha subito un danno cerebrale, ha bisogno cure e scuole particolari. I suoi limiti, nella memoria e nella parola, non sono molto diversi da quelli dei migranti, e la delicata love story tra lei e Mayor, piano piano, diventa il cuore di Anche noi l’America che poi è un racconto corale, frammentato in tante voci. Ci sono un sacco di momenti che passano in piccole inquadrature, istantanee, ricordi di molte solitudini. I singoli capitoli sono piccoli racconti, potrebbero vivere una vita autonoma, sono come sospesi in un terra di nessuno, così come nel quartiere appaiono confini inviolabili, per quanto non segnalati, ma non meno pericolosi. Per qualcuno, in effetti, la condizione di “americani invisibili” significa che “tutti gli altri devono obbedire alla legge e basta. Noi dobbiamo rispettarla due volte”. E’ in quel momento che le vite e le storie vengono risucchiate nelle strade, gli uomini perdono il lavoro, le donne si accorgono di aver perso “la metà di tutto quello che avevamo. Sparita così, in un attimo” e tutti cominciano a chiedersi: è o non è l’America? Ma cosa è casa, in quale lingua si possono esprimere i sogni? Restano aggrappati ai nomi dei cibi, alle canzoni, alla nostalgia perché come dice Alma: “Avevamo impacchettato la nostra vecchia vita e l’avevamo lasciata indietro, poi ci eravamo precipitati verso una nuova esistenza con poche cose, noi stessi e la speranza”. Non è abbastanza nell’America del ventunesimo secolo: l’istinto di ogni migrante, “che nasce dalla mancanza o dal desiderio”, come dice Arturo, genera quel miraggio, infine svelato da Anche noi l’America. Un romanzo toccante, attualissimo, e importante. Consiglio per la colonna sonora: usare i Los Lobos in abbondanza (in particolare The Neighborhood e The Town And The City), impeccabili, almeno quanto Cristina Henríquez, nel raccontare le vite in esilio, ed è così che va chiamato.

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