martedì 9 febbraio 2016

William Faulkner

Anche nella versione storyteller, William Faulkner rimane unico nel manipolare gli elementi narrativi per adeguarli alle fiabe e ai misteri da raccontare ai bambini. La praticità con cui allinea e incastra le azioni, gli ambienti, le circostanze, i personaggi rimane inalterata nonostante la specificità del pubblico, dei temi e del loro svolgimento. I fantasmi di Rowan Oak raccoglie alcuni racconti che William Faulkner alias Pappy era solito declamare ai nipoti e anche nell’assemblare i piccoli dettagli che costituiscono la forma classica di tutte le leggende asseconda uno stile prezioso e limpido. Naturale, poi, che ci sia una netta distinzione e le due diverse identità in cui viene declinato Il segugio portano in profondità alla differenza tra scrivere e raccontare una storia. L’elemento fantastico è minimo, legato alla sensibilità animale che Il segugio mostra davanti alla perdita del suo padrone, assassinato per un odio atavico alimentato dalla povertà, dalla miseria e dalla fatica. Lui, come il suo carnefice, sapeva “che il raccolto non sarebbe stato migliore dell’anno prima, ma era tutto ciò che aveva”. Le parole sono misuratissime, intagliate una scheggia alla volta, soltanto che in una versione i due protagonisti non hanno nome e nell’altra si chiamano Houston e Cotton, in una lo sceriffo arriva alla fine e nell’altra è coinvolto fin dall’inizio, anche se in entrambe assume il ruolo di deus ex machina che risolve e conclude la triste vicenda dei due contadini. Da studiare, perché Il segugio è esemplare nel rivelare le semplificazioni della forma orale rispetto alle possibilità della scrittura. L’elemento fantastico è invece determinante con Il lupo mannaro, una breve storia che rispecchia le regole, i dettami e le atmosfere che il titolo lascia intuire. L’elenco comprende la luna piena, le nuvole nel vento della notte, gli animali e gli esseri umani con la gola squarciata, il buio all’improvviso, ma poi William Faulkner ci mette sempre un elemento in più, un particolare minuscolo, eppure distintivo. Basta cercarlo. Tra I fantasmi di Rowan Oak spicca quello di Judith Sheegog, che vive un momento d’incanto, in una sera di stelle, accanto a un soldato nordista, prigioniero nella sua casa, lì a Rowan Oak. Quando lui fugge, per non tornare più, lei disperata cerca “il benedetto sollievo della morte” ed è destinata a diventare il fantasma (bianco) che appare nelle tenebre di Halloween illuminate dalle luci dentro le zucche intagliate, quelle notti in cui gli adulti non sono più affidabili dei bambini. L’utilizzo dei luoghi comuni è funzionale alla destinazione dei racconti e del resto William Faulkner li sottolinea con una certa disinvoltura, così come la dimensione onirica in L’albero dei desideri. Un racconto più fiabesco e fantastico, con tutta la leggerezza propria di Pappy, ma che poi si riallaccia ai ricorsi storici di Judith con un punta di inevitabile fatalismo quando dice “tanto le guerre non cambiano mai” oppure, e ancora, con la voce di uno dei protagonisti, che “la prossima volta che quelli ne fanno una mi sa proprio che non ci vado”. Invece Rowan Oak è là, è facile ritornarci, “l’edificio non si vede dalla strada, ma spicca in fondo ad essa: bianco, grande e bello. Sembra che sia lì da sempre”, e a sentire queste storie deve essere proprio così.

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