La
vita non è facile, per i Clockers.
Sono imprigionati nella forma di una città che genera periferie,
quartieri popolari dalle geometrie che non compongono, comprimono.
Dempsy, l’immaginaria (ma nemmeno tanto) area urbana tra Newark e
il New Jersey, non è NYC, è la metropoli senza esserlo, un intero
subcontinente “dove tutti avevano l’aria di essere sul punto di
andare da qualche parte, ma in realtà non si allontanavano mai per
più di quindici metri”. Nell’incipit di Clockers,
è come se Richard Price osservasse la scena dall’alto e la visione
d’insieme concorre a delineare un terra desolata che è l’habitat
naturale del pericolo e della paura. Per dirla con Sam Shepard “tanto
per cominciare, non c’era nessuna città” e l’elemento
architettonico che senza dubbio determina i confini invisibili e
scandisce i ritmi dei movimenti dei Clockers
resta indefinito, così come la distinzione tra la legge e la
giustizia o meglio la marginalità di entrambe. Gli edifici sono
enormi, anonimi, grigi e opprimenti. Gli appartamenti sono troppo
piccoli, troppo affollati o troppo vuoti. La vita avviene nelle
strade, dove tutti si rincorrono e le distanze sono minime eppure
complesse perché “all’altro lato della strada può succedere di
tutto”. Il problema non è soltanto la separazione delle
giurisdizioni o la divisione territoriale dello spaccio. E’ quella
sorta di terra comune, un complicato processo chimico di soluzione
dove le componenti non riescono né a fondersi né a dividersi. La
constatazione è lapidaria, quando si capisce che “poteva succedere
qualsiasi cosa a chiunque; da quelle parti tutti erano o colpevoli o
stavano per diventarlo”. Sono tutti Clockers,
in effetti, e i personaggi rimbalzano come la pallina di un flipper
che sembra in preda al caos e all’energia e invece segue percorsi
tracciati e obbligati. Rocco Klein e Manzilli, Duck Gathers, Thumper,
Big Chief e tutti gli altri poliziotti sono incastrati sui
marciapiedi, senza speranze, senza aspettative, con doppi lavori e
doppi giochi, proprio come Strike (il protagonista) e suo fratello
Victor Dunham, Champ, Darryl Adams, Futon, Peanut, Rodney, Buddha
Hat. L’unico che si salva, perché si defila, è Sean Touhey, un
attore in cerca di ispirazione che assiste alle scene dei crimini. E’
un personaggio secondario, rispetto ai Clockers,
ma quando comincia a vedere vomito, sangue, bossoli, lacrime,
disperazione capisce che nel labirinto di Dempsey “non hanno futuro
perché il futuro non l’hanno nemmeno in mente” ed è lesto a
scomparire, come a sottolineare che tutti stanno interpretando un
ruolo che lui non è in grado di reggere. L’approccio di Richard
Price è quasi antropologico nell’esaminare le deviazioni umane e la condizione di isolamento nella realtà del quartiere e delle sue guerre
quotidiane: gli spazi sono
ridotti, il terreno limitato ed è fatale comprendere che “non è
questo il modo di vivere, ma la tua vita è dove sei adesso, quindi
cosa ci puoi fare?”. Niente, e nelle strade succede tutto il resto:
“la gente crepa ogni momento”, o l’aspetta, inevitabile, il
carcere. I meccanismi perversi dello spaccio e del consumo (“L’unico
paradiso che vogliono”) sono una versione dell’economia di
mercato adeguata alla “street life” con la supponenza dei
Clockers
quando sostengono che “da come abbiamo sistemato le cose, è un
commercio quasi legittimo”. Come diceva Jim Carroll, la routine del
tossico non è molto diversa da chi ha un lavoro normale, solo che
gli orari sono spostati verso le tenebre. Clockers
ampia quel concetto, raccontando la vita, e la morte, quando ci sono
“troppe ore della notte ancora davanti a sé”. L’angoscia è
trattata con metodo, con meticolosa attenzione ai dettagli e lo
slang, le battute, il ritmo stesso dei dialoghi (che è proprio
hip-hop) è riprodotto da Richard Price con uno scrupolo più che
realista. E’ straordinario a convogliare nel linguaggio, sincopato,
strascicato, gergale, spietato la geografia urbana, giungendo alla
conclusione che, per i Clockers,
“oltre alla classe, l’altra cosa necessaria per stare sulla
cresta dell’onda è la paura”. Micidiale.
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