mercoledì 16 dicembre 2015

Richard Price

La vita non è facile, per i Clockers. Sono imprigionati nella forma di una città che genera periferie, quartieri popolari dalle geometrie che non compongono, comprimono. Dempsy, l’immaginaria (ma nemmeno tanto) area urbana tra Newark e il New Jersey, non è NYC, è la metropoli senza esserlo, un intero subcontinente “dove tutti avevano l’aria di essere sul punto di andare da qualche parte, ma in realtà non si allontanavano mai per più di quindici metri”. Nell’incipit di Clockers, è come se Richard Price osservasse la scena dall’alto e la visione d’insieme concorre a delineare un terra desolata che è l’habitat naturale del pericolo e della paura. Per dirla con Sam Shepard “tanto per cominciare, non c’era nessuna città” e l’elemento architettonico che senza dubbio determina i confini invisibili e scandisce i ritmi dei movimenti dei Clockers resta indefinito, così come la distinzione tra la legge e la giustizia o meglio la marginalità di entrambe. Gli edifici sono enormi, anonimi, grigi e opprimenti. Gli appartamenti sono troppo piccoli, troppo affollati o troppo vuoti. La vita avviene nelle strade, dove tutti si rincorrono e le distanze sono minime eppure complesse perché “all’altro lato della strada può succedere di tutto”. Il problema non è soltanto la separazione delle giurisdizioni o la divisione territoriale dello spaccio. E’ quella sorta di terra comune, un complicato processo chimico di soluzione dove le componenti non riescono né a fondersi né a dividersi. La constatazione è lapidaria, quando si capisce che “poteva succedere qualsiasi cosa a chiunque; da quelle parti tutti erano o colpevoli o stavano per diventarlo”. Sono tutti Clockers, in effetti, e i personaggi rimbalzano come la pallina di un flipper che sembra in preda al caos e all’energia e invece segue percorsi tracciati e obbligati. Rocco Klein e Manzilli, Duck Gathers, Thumper, Big Chief e tutti gli altri poliziotti sono incastrati sui marciapiedi, senza speranze, senza aspettative, con doppi lavori e doppi giochi, proprio come Strike (il protagonista) e suo fratello Victor Dunham, Champ, Darryl Adams, Futon, Peanut, Rodney, Buddha Hat. L’unico che si salva, perché si defila, è Sean Touhey, un attore in cerca di ispirazione che assiste alle scene dei crimini. E’ un personaggio secondario, rispetto ai Clockers, ma quando comincia a vedere vomito, sangue, bossoli, lacrime, disperazione capisce che nel labirinto di Dempsey “non hanno futuro perché il futuro non l’hanno nemmeno in mente” ed è lesto a scomparire, come a sottolineare che tutti stanno interpretando un ruolo che lui non è in grado di reggere. L’approccio di Richard Price è quasi antropologico nell’esaminare le deviazioni umane e la condizione di isolamento nella realtà del quartiere e delle sue guerre quotidiane: gli spazi sono ridotti, il terreno limitato ed è fatale comprendere che “non è questo il modo di vivere, ma la tua vita è dove sei adesso, quindi cosa ci puoi fare?”. Niente, e nelle strade succede tutto il resto: “la gente crepa ogni momento”, o l’aspetta, inevitabile, il carcere. I meccanismi perversi dello spaccio e del consumo (“L’unico paradiso che vogliono”) sono una versione dell’economia di mercato adeguata alla “street life” con la supponenza dei Clockers quando sostengono che “da come abbiamo sistemato le cose, è un commercio quasi legittimo”. Come diceva Jim Carroll, la routine del tossico non è molto diversa da chi ha un lavoro normale, solo che gli orari sono spostati verso le tenebre. Clockers ampia quel concetto, raccontando la vita, e la morte, quando ci sono “troppe ore della notte ancora davanti a sé”. L’angoscia è trattata con metodo, con meticolosa attenzione ai dettagli e lo slang, le battute, il ritmo stesso dei dialoghi (che è proprio hip-hop) è riprodotto da Richard Price con uno scrupolo più che realista. E’ straordinario a convogliare nel linguaggio, sincopato, strascicato, gergale, spietato la geografia urbana, giungendo alla conclusione che, per i Clockers, “oltre alla classe, l’altra cosa necessaria per stare sulla cresta dell’onda è la paura”. Micidiale.

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