Westchester,
poco a sud di New York, è una delle contee più agiate degli Stati
Uniti e con il suo country club, la sua esclusività, la sua opulenza
è qualcosa in più di una (ricca) zona residenziale: è un modo di
esprimere un tenore di vita. Per dire, Mark e Deb Berman sono reduci
dalla festa d’inaugurazione di una villa da qualche milione di
dollari e stanno litigando perché lei lo ha visto un po’ troppo
vicino a Karen Daily, amica e vicina di casa. E’ da quell’equivoco
che si genera tutta la cupa storia di Savage
Lane. La famiglia di
Mark Berman è speculare a quella di Karen (figli compresi), ma in
modi diversi lui e lei infrangono le regole e l’equilibrio di
Savage Lane,
per quanto ipocrita e superficiale possa essere. Mark proietta le sue
illusioni senza sosta, credendo all’infinito (e oltre) nell’amore
di Karen, che è inesistente. Questo è il primo detonatore perché
la sua insistenza non tiene conto del paradigma di Savage
Lane reso esplicito
da Jason Starr: “Le fantasie sembrano meravigliose, ma sono solo
una droga di passaggio. Ne hai bisogno sempre di più e alla fine,
quando subentra la realtà, sei completamente fottuto”. All’estremo
opposto, Karen è aggrappata alla realtà. Non ha alternative: è
sola, è divorziata, è libera e indipendente. Tutti elementi che la
mettono su un binario deviante dalla supposta normalità di Savage
Lane, nonostante sia
la più equilibrata. A Deb la famiglia, una bella casa, le comodità
non bastano più: ha un problema con l’alcol e una relazione con un
ragazzo minorenne, Owen Harrison, aggravata dall’uso di giochi
erotici più o meno pericolosi. Jason Starr non usa un linguaggio
ricercato: i personaggi sono accennati, per sommi capi, per quanto
evidenti, e lo stile è molto pop, efficace e cadenzato. Quello che
avvolge e impone, in pratica, al lettore di cominciare e finire
Savage Lane
senza mollarlo un attimo è la sua abilità nel disegnare geometrie
sempre sul filo del rasoio, con le frustrazioni, la disperazione, il
desiderio che spingono con insistenza a varcare i confini della
moralità e della legalità. L’intreccio è uno schema chiuso su se
stesso, una rete elettrica in cui la trasgressione e la noia
costituiscono le due polarità e convergono verso il corto circuito,
inevitabile. L’angoscia che genera nel riprodurre le
contrapposizioni, i miraggi, i sotterfugi è ipnotizzante. Non ci
sono grandi spargimenti di sangue (si tratta di un omicidio, e un
altro nel passato) o scene spettacolari, ma la tensione è sempre
altissima proprio per questa ambiguità. L’assassino è soltanto
uno e Jason Starr lo mostra senza tante esitazioni, in un momento che
pare proprio rivelatorio. C’è una vittima e sono tutti colpevoli
proprio per via delle fantasie, delle supposizioni, dei pettegolezzi,
dall’arrivo degli inviati dei notiziari. Persino la stessa vittima,
anzi, soprattutto la stessa vittima, è colpevole. In questo Jason
Starr è molto concreto: nell’era del Patriot Act e della telefonia
mobile non c’è scampo, soprattutto se di cellulari ne hai un paio.
Puoi pure sotterrarli con il cadavere, ma le tracce restano sempre, e
comunque non sarà quella la soluzione del caso. Savage
Lane si svolge
(drammatica conclusione compresa) nello spazio ristretto della vita
quotidiana: un paio di isolati, la scuola (o meglio, il parcheggio
della scuola), la piscina, il country club, i figli, tutto a breve
distanza, dentro i confini del quartiere. I suoi limiti sono
immutabili e invalicabili. L’unico vero lusso è la follia.
Nessun commento:
Posta un commento