domenica 28 luglio 2013

David Foster Wallace

L’intervista di Ostap Karmodi comincia partendo da questioni tanto cruciali quanto indefinite ed è affascinate notare la progressione esponenziale con cui David Foster Wallace cerca di riportarla nel suo alveo naturale, quello della letteratura e della narrativa in particolare. Non che gli manchino gli argomenti alle legittime sollecitazioni di Ostap Karmodi. Siamo nel 2006 e DFW, come tutti, brancola nel buio: “Come andranno le cose? Non lo so. E una delle ragioni è che l’America vive tempi molto spaventosi: molti di noi si trovano nella posizione di aver più paura del nostro paese e del nostro governo di quanta non ne abbiamo per i presunti nemici all’estero”. Se non altro, anche negli spazi ristretti di un’intervista riesce a mantenere una certa lucidità: “Tutti i giorni mi imbatto in qualcosa che avevo dato per scontato ma che si rivela falso. Per come vanno le cose in America adesso, posso andare in giro e rendermi conto al di là di ogni dubbio che il più delle volte quello in cui credo fermamente sono tutte cazzate. E rendersene conto è un grosso privilegio. Penso che in tantissimi momenti della storia del mondo e in molte nazioni non ci si affatto la possibilità di realizzare quanto spesso ci si sbagli”. Ostap Karmodi, come era nelle intenzioni prova a mantenere il dialogo sui temi d’attualità e DFW cerca sempre di schivare l’ovvietà, anche se non può esimersi di esprimersi sull’evoluzione di questi anni: “La mia personale opinione è che, siccome la tecnologia e la logica economica sono diventate così sofisticate, oggi è possibile perpetrare crudeltà inimmaginabili due o trecento anni fa. Pertanto, abbiamo l’obbligo morale di tentare con tutte le nostre forze di sviluppare la compassione e la pietà e l’empatia. Il che significa che questi sono tempi davvero difficili per l’America, perché l’elettorato americano è per lo più semplicemente disinteressato a gran parte di queste tematiche”. Piano piano, aggrappandosi a piccole variazioni tra una domanda e l’altra, David Foster Wallace riporta anche il suo interlocutore all’essenza, non senza lasciare prima una nitida impressione di umiltà: “Da profano, penso semplicemente di non avere un’opinione informata sul tema dell’evoluzione morale. Forse è questione del numero di variabili e quindi il fatto che sia irrisolvibile dipende dal genere di modello che vuoi usare per misurarle. E’ una domanda affascinante, ne convengo. Non penso nemmeno di avere un’opinione su questo. Ho solo una serie di paure diverse”. Appena può, subito dopo, rimette la barra dell’intervista sulle coordinate che più ama: Čechov, Puškin, Tolstoj, Dostoevskij, ma anche Viktor Pelevin, Jacques Derrida o Henry James perché, dice lo stesso DFW “tendo a pensare alla narrativa come qualcosa di composto soprattuto da personaggi, esseri umani e una specie di esperienza interiore”. Dal suo volentoroso ospite si congeda con una sorta di inchino: “quello che scrivo è così americano e così idiomatico”, ed è così unico, anche in una piccola, sghemba intervista.

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