venerdì 25 maggio 2012

Nathanael West

La trascrizione della dimensione più intima delle emozioni è un esercizio complicato anche per il più attrezzato degli scrittori. Nathanael West con quella scrittura tagliente e immediata, le frasi intarsiate parola dopo parola, ogni dettaglio inciso al posto giusto, non solo riesce a scandagliare l’imponderabile ondeggiare di linguaggi inarticolati e imprevedibili, ma lo fa su un terreno di gioco infido e ambiguo, dove un’immagine, non fosse altro che un miraggio, è tutto. Sotto il cielo nero di Los Angeles, scrive Nathanael West “è difficile ridere del bisogno di bellezza e di romanticismo, non importa quanto ciò che ne derivi sia privo di gusto, persino orribile. Ma è facile sospirare di fronte a questo. Poche cose sono più tristi di quelle davvero mostruose” e come un rabdomante dentro l’effimero ed evanescente circo di Hollywood capisce e spiega come la geografia dei sentimenti non coincide con quella delle emozioni. Del resto, l’industria del cinema falsa tutti i piani e Il giorno della locusta è un varco che si spalanca su un impero decadente e morboso, ripiegato su se stesso e sulla sua vacuità. Per entrarci basta seguite passo per passo le gesta di Tod Hackett “un ragazzo assai complicato, dalle multiple personalità, che si incastravano una nell’altra, come un gioco di scatole cinesi”, uno che “forse aveva bisogno di un motivo per essere sensibile”. Il giorno della locusta ruota tutto intorno al suo personaggio: si crede un artista e un essere capace di accostarsi e penetrare il senso della vita ma “le sue emozioni crescevano fino a divenire un’enorme ondata, che si curvava e sollevava, sempre più in alto, fino a quando sembrava che l’onda dovesse portarsi via tutto ciò che aveva davanti. Ma l’urto non avveniva mai. Accadeva sempre qualcosa sulla cima della cresta e l’onda collassata defluiva come acqua in un tombino, lasciando, al massimo, dei residui di sensazioni”. Il tratteggio di Nathanael West non poteva essere più eloquente: nel recinto di Hollywood la corsa contro la noia e la fuga dai luoghi comuni è una partita persa. Per Tod Hackett e gli altri abitanti di quella parte di deserto trasformata in città i processi vitali sono complessi e contraddittori perché “non passava giorno che non leggessero i giornali e andassero al cinema. Ed entrambe le cose li nutrivano di linciaggi, omicidi, crimini sessuali, esplosioni, naufragi, case chiuse, incendi, miracoli, rivoluzioni, guerra. Questa dieta quotidiana li rendeva sofisticati”. La macchina delle illusioni sempre in movimento, con un costante “olocausto di fiamme” sullo sfondo (guarda caso, un’immagine che ricorre in nove film americani su dieci), impedisce persino a Tod Hackett di capire se è felice o se è triste, mentre quattro analfabeti “tengono l’industria per il collo”. Gente che sa “farsi ricevere da un curatore fallimentare e uscirne con un bell’orologio d’oro fra i denti” e decide senza troppi complimenti dove devono andare a finire le emozioni. Così va il mondo e la (delirante) risata che conclude Il giorno della locusta è un colpo di frusta che lascia il segno.

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