lunedì 19 settembre 2011

Jack Kerouac

Quando arriva a Big Sur, Jack Kerouac è ormai un uomo in fuga. L’alcol, suo fedele compagno di viaggio, ha ormai preso la guida e i tormenti, i deliri, le paure stanno assediando l’utopia della “semplice dorata eternità”. Coadiuvato dall’inseparabile Neal Cassady, ospitato da Henry Miller (è sua la capanna di Big Sur), Jack Kerouac nel corso della sua estate californiana. manifesta “meraviglia e tristezza”, che che poi a ben guardare sono le espressioni emblematiche della sua vita. Lo stupore deriva dalla magnifica bellezza di Big Sur: incastrata in un sentiero che dall’oceano s’infratta tra le rocce, fertile di storia e di vita animale, avvolta tra le acque dei fiumi e la prosperità della vegetazione, l’umile residenza di Jack & Neal diventa quasi un aggiornamento di Walden ed è la chiusura di un cerchio, il ritorno alla wilderness, compreso quel mare infinito che spingendo Jack Kerouac alla contemplazione del suo destino lo porta a dire: “Mi sento colpevole perché faccio parte dell’umanità”. Big Sur diventa un mito ed è questa capacità di Jack Kerouac e della Beat Generation in generale di generare miti da niente, persino da una baracca con quattro stoviglie di alluminio, la legna da spaccare e una natura impenetrabile che sorprende anche a distanza di anni (di secoli persino) e il paradosso è che Big Sur è il capolinea di Jack Kerouac. Come scrive nella breve prefazione, lo scrittore ormai sta vagheggiando attorno alla leggenda di Duluoz, nel tentativo di ricreare un ordine dal magma caotico che si è lasciato alle spalle. Un altro sogno che diventerà una leggenda. L’uomo si è arreso e a Big Sur ci arriva ormai convinto che il suo problema sia la soluzione, così come confessa, fin dalle prime battute: “Conveniamo tutti che è troppo potervi tenere testa, che siamo circondati dalla vita, che non la capiremo mai e così risolviamo tutto quanto tracannando whisky dalla bottiglia e quando la bottiglia è vuota io mi precipito giù dalla macchina e ne compro un’altra, punto”. Curioso che sia il mare a portare le avvisaglie che che qualcosa, tutto sta finendo: Big Sur è un romanzo marino almeno quanto Sulla strada è terrestre: è uno specchio ed è una distanza e così Big Sur è un rifugio e insieme un cul de sac. Un luogo in cui raccogliersi e raccogliere i pezzi, un pozzo profondo dove l’euforia di anni e anni vissuti di corsa comincia a trasformarsi in angoscia perché “tentiamo di seguire una strada confidando in noi stessi, l’aiuto non giunge mai troppo presto”. Il disagio nel poema che conclude Big Sur (Mare, appunto) è palpabile. L’estate a Big Sur sta finendo, dall’oceano sale un fitta nebbia, l’aria si fa fredda e ostica. Jack Kerouac fissa le onde tra i versi di un lungo blues e in un momento di malinconica lucidità scrive quattro righe commoventi: “Comprerò il biglietto e dirò addio in un giorno fiorito e mi lascerò alle spalle tutta San Francisco e tornerò a casa attraverso l’America d’autunno e tutto sarà come all’inizio”. Il crepuscolo di un sogno comincia così.

Nessun commento:

Posta un commento