Il Canada è soltanto una scusa. La breve trasferta nel Québec, una manciata di giorni all’inizio dell’autunno 1850, non è di sicuro sufficiente a fornire un quadro soddisfacente di un territorio vasto e complesso. Thoreau sembra esserne consapevole e lo conferma senza esitazioni: “La sola cosa che desideravo era arrivare in Canada, e farmi una bella passeggiata, proprio come avrei fatto in un pomeriggio qualunque nei boschi di Concord”. Le differenze, però, ci sono a partire dall’attrito linguistico tra l’idioma anglosassone e il francese che genera non pochi momenti di imbarazzo e ilarità. Thoreau si convince che “con bon jour e toccandosi il cappello si può attraversare senza problemi tutto il Canada” e, nonostante le difficoltà di comunicazione, il fascino di scoprire un territorio diverso, lo convince che il Canada “non era semplicemente un posto dove terminavano le ferrovie e dove si rifugiavano i criminali”. Thoreau si dilunga nelle descrizioni dei fiumi (“La loro riviére serpeggia più del nostro river”), delle cascate (“Le cascate da queste parti erano come una droga, e noi ne diventammo dipendenti. Ce ne eravamo abbeverati troppo”) e più in generale dei paesaggi. Il suo è un esercizio di osservazione, un reportage di viaggio limitato ma denso che cerca una visione degli sviluppi economici, delle attività agricole (“È meglio pianificare in modo generoso quando si è giovani, perché allora la terra è a buon mercato, ed è fin troppo facile restringere i nostri piani in seguito”) ed è tutto un florilegio di dettagli di botanica, storia, topografia. Per inciso, la presenza di fortezze e di muri nonché di truppe armate sparse per il territorio è motivo per cui anche nell’occasione, piuttosto bucolica, Thoreau non perda l’occasione per sfoderare la sua verve polemica e antimilitarista: “Non ho dubbi che i soldati ben addestrati siano, come categoria, peculiarmente privi di originalità ed indipendenza”. La diretta conseguenza è che “è impossibile addestrare bene un soldato senza renderlo un disertore. Il suo nemico naturale è lo stesso governo che lo addestra”. Un’attenzione altrettanto tagliente è dedicata al rapporto con il passato e a come influenza il presente, dove Thoreau si accorge che “persino i nomi dei più umili villaggi canadesi” lo colpivano “come quelli di famose città dell’antichità”. La denominazione è il più importante indizio sulle mappe e, in un certo senso, anche il punto di non ritorno di Uno yankee in Canada: “In un nome c’è tutta la poesia del mondo. È una poesia che la massa degli uomini sente e legge. Cos’è la poesia nel senso comune, se non un susseguirsi di simili nomi, così orecchiabili? Non desidero niente di più di una bella parola. Il nome di una cosa per me può facilmente valere più che la cosa in sé. Il riconoscimento da parte dell’uomo di ogni cosa della natura, e il suo legare la propria vita ad esso, è indicibilmente bello. Tutto intorno conferma questa sottile verità, che una volta lì crescevano i pioppi; e la rapida deduzione che ne consegue è che gli uomini erano lì a guardarli. E sarebbe lo stesso con i nomi dei nostri villaggi nativi e vicini, se non li avessimo profanati”. La distanza geografica con gli Stati Uniti così come il viaggio sono relativi, ma Thoreau non si esime di pronunciare un’ultima sferzante sentenza: “Mi divertì il fatto che, dopo il nostro ritorno, qualche persona meno avvezza a viaggiare ci domandò se ci era stato facile rimediare una sistemazione; come se uno viaggiasse all’estero per sistemarsi, quando questo si può invece fare comodamente a casa”. Una volta di più, Uno yankee in Canada è la dimostrazione che, come scriveva John Aldrich Christie, prima di tutto ci sono “continenti ed emisferi della mente” da esplorare e Thoreau resta la guida migliore.
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