All’indomani della fine della guerra civile americana, una bambina fugge, portandosi dietro un pargolo ancora più piccolo, Ned. Come tanti vorrebbe lasciare il Sud per il Nord, ma non sa dove andare. Nel suo viaggio, Miss Jane è al centro di un vortice di sentimenti contrastanti, che collidono ed esplodono in brutali episodi di violenza. Una serie di gironi infernali dove la condizione degli afroamericani, dai saccheggi dei sudisti e poi degli yankee, perché la guerra non fa differenza, dalla povertà, dalle persecuzioni alla fame, dallo sfruttamento alla diaspora alla segregazione, si dipana lungo le memorie di una donna a cavallo di due secoli. L’autobiografia di Miss Jane Pittman è una sequenza ininterrotta di atrocità dove la sofferenza è endemica, come lascito della schiavitù, e le memorie di Jane Pittman la raccontano senza alcun filtro, proprio come illustrano la vita lungo il fiume e nelle piantagioni. È “il marchio della paura” che resta anche dopo la fine delle ostilità, una fragilità spiegata così da Miss Pittman: “Le persone di colore scrivevano lettere a Washington, a volte certi gruppi si arrabbiavano abbastanza da andarci di persona, ma le truppe non tornarono mai. Gli affari per gli yankee invece arrivarono, e arrivarono i soldi degli yankee per aiutare il Sud a rimettersi in piedi, oh sì; ma niente truppe yankee. Fummo lasciati lì a cercare di sopravvivere”. I martiri sono tanti: Miss Pittman ricorda l’omicidio di Ned che, una volta cresciuto è diventato un insegnante o la storia del governatore Huey P. Long per cui ci si domanda: “Per quale motivo pensano che i ricchi abbiano ucciso Long? Perché ha chiamato negri le persone di colore? Lo hanno ucciso perché ha aiutato i poveri, i poveri neri e i poveri bianchi. Perché i poveri non dovevano essere aiutati, per questo lo hanno ucciso. Il povero deve lavorare. Il povero deve partecipare alle vostre guerre e poi morire. Ma il povero non deve essere aiutato”. L’autobiografia di Miss Jane Pittman è un ibrido compresso tra un romanzo, un memoriale e un’estrema testimonianza civile: la scrittura è spessa come cuoio e fitta come i canneti delle paludi in cui si nascondono i fuggitivi, ma ha una forza ipnotica. Detto questo, Ernest J. Gaines non si sostituisce a Miss Pittman, anzi: passo dopo passo, le offre piuttosto una voce concreta, capace di stare sempre al centro del racconto, come un magnete, e di espandersi nel professare ogni modo per difendere la dignità, dalla fede al cibo, dall’istruzione al lavoro, dagli inni fino al territorio in cui succede tutto. Il paesaggio, maestoso e terrificante, diventa vivo nelle descrizioni di Miss Pittman: “Un fosso non è niente, nemmeno un bayou è niente. Ma fiumi e alberi sono un’altra cosa, a meno che, ovviamente, non si tratti di un albero del rosario. Chiunque venga sorpreso a parlare con un albero del rosario o con un biancospino deve essere pazzo. Ma quando parli con una quercia che abita qui da tutti questi anni e sa più di quanto tu possa mai sapere, non è follia; è solo un segno di rispetto verso qualcosa che è nobile”. All’alba della storica inondazione in Louisiana del 1927, diventa chiaro a Miss Pittman, così come a Ernest J. Gaines, che “non era il giorno del giudizio. L’uomo si era semplicemente spinto un po’ troppo in là”, e si capisce che non vale soltanto per i fenomeni naturali.
Nessun commento:
Posta un commento