Una serie di interviste condotte con grandi jazzisti in maniera insolita, ma molto interessante (ovvero ascoltando insieme le loro musiche preferite) conduce alla creazione di un utile metodo per affrontare, da neofiti come da esperti, la sublime arte del jazz. Gli incontri raccolti da Ben Ratliff in Come si ascolta il jazz sono rivelatori e liberatori, soprattutto per chi ama la musica al punto di parlarne e di scriverne, due forme d’espressione che non sempre riescono a renderne le dimensioni della bellezza. Il suo metodo di avvicinamento all’idea di una “conversazione sulla musica” (che vuol dire anche “sopra” la musica) prevede piccole tappe di aggiramento degli ostacoli, qualche spicciolo trucco per giocarsi le carte migliori nelle interviste, quel tanto di confronto da rendere umani anche i colossi del jazz che ha di fronte perché poi “ascoltare musica in compagnia di qualcuno è un atto di intimità, perché la musica si rivela per gradi”. Ognuno cerca di interpretarla con gli strumenti che ha: chi spiega le suddivisioni ritmiche e i materiali degli strumenti, chi racconta le connessioni con la vita quotidiana, chi evoca fantasmi (Charlie Parker il più gettonato) e chi si rifugia nelle frazioni di tempo e nelle notazioni musicali per descrivere un’emozione. Però più si va in alto e più è chiaro che l’ascolto, fermarsi a sentire un assolo di sassofono o una scansione sul rullante, è qualcosa di più, perché è lo stesso jazz visto dai musicisti che va oltre la musica. A Ben Ratliff lo dicono un po’ tutti, ma sono due leggende viventi a spiegarlo meglio degli altri. Il primo, Sonny Rollins, lo spiega soprattutto per i protagonisti, per i musicisti, per chi ci è dentro: “Questo è il jazz: jazz vuol dire libertà. Non credo sia obbligatorio andare sempre a tempo. Ma si può suonare in due modi diversi. Uno, senza pulsazione. L’altro, con una pulsazione fissa e si suona su quella. Ed è questo che io considero il paradiso, riuscire a essere così liberi, spirituali, musicali. Mi sembra di poter dire che è un’idea tuttora poco considerata”. L’altro, Ornette Coleman, che sembra quasi rispondergli a distanza, dopo i due punti apre un’intera visione (per chi suona, per chi ascolta, per tutti): “La musica non è uno stile, è un’idea”. E’ per questo che gli incontri di Ben Ratliff, oltre a “raccontare” la musica (il jazz non è l’unico argomento, anzi è solo l’inizio) riescono a intuire le sfumature e le profondità di coordinate invisibili perché scopre e riscopre che “i musicisti jazz hanno sempre più cercato di collegare fra loro gli apparenti vicoli ciechi della storia, mostrando così il senso delle fratture fra tradizione e innovazione oppure arrivando a comprendere che quelle che sembravano fratture non erano affatto tali”. Se poi serve un’opinione di tutto riguardo sul jazz, sul suo futuro o sulle sue origini, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Per esempio, Pat Metheny quando dice: “Preferisco, se il jazz rimane una musica popolare. Non trasformiamolo in musica classica. Che resti una musica di strada, che accompagna la vita quotidiana delle persone. I jazzisti devono continuare ad adoperare i materiali, gli strumenti, lo spirito dell’epoca in cui vivono come punto di partenza per la loro arte”. Non mancano, in appendice, spicciole biografie e altrettante discografie consigliate, molto utili una volta compreso come si ascolta il jazz. Appassionante, coinvolgente e “scritto nell’anima”.
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