martedì 17 luglio 2018

Charles Wright

È ancora l’attenzione di Charles Wright al paesaggio italiano a determinare il senso compiuto delle poesie raccolte in L’altra riva del fiume. L’Italia vista da un poeta “tutto americano” sulle colline di cipressi del lago di Garda, nelle terre di Virgilio, fino all’esplicito omaggio a Mantova, diventa una visione notevole che va oltre la cornice della cartolina o del diario di viaggio e dello sguardo fugace del turista. Avendo studiato e tradotto la letteratura italiana, un lavoro che, come scrive in Omaggio a Cesare Pavese, l’ha portato a riflettere su come si fa “ad animare un verso. A creare ponti immaginari tra immagini e strofe, e ad attraversarli”, Charles Wright si trova immerso tra le pieghe dell’immaginazione e nella realtà dei panorami. Una condizione affascinante in sé, come scrive proprio in L’altra riva del fiume: “È della connessione che parlo, di armonie e strutture, e di tutte le varie cose che c’incatenano i polsi al passato. Dietro ogni cosa qualcosa d’infinito appare, e disappare poi, tutto dipende da come restringi le superfici. Tutto dipende da che posto hai nel cielo”. Con una grazia leggera e raffinata, che si risolve in una sonora fragranza, Charles Wright resta in equilibrio, tra i resoconti letterari, compreso l’appassionato tributo A Giacomo Leopardi su nel cielo (“Non è il corpo, è la mente che ci sostiene e punta una luce nei nostri occhi: se lo spirito è il nulla, la luce meglio che ritorni piuttosto che s’accenda”) e l’incanto davanti alla generosa bellezza degli scorci italiani, che lo spingono a considerare un proposito molto semplice: “Voglio sedermi sulla riva del fiume, all’ombra del sempreverde, e guardare in faccia ciò che, sia quel che sia, c’è in serbo per me”. La scelta delle parole è modellata con cura: nei versi di Charles Wright c’è una dolcezza e insieme questa fermezza, quasi una spontanea solidità, una spontaneità che si somma a una prospettiva coltissima, e nello stesso tempo genuina. Un’attitudine che ricorda quello che scriveva Giuseppe Ungaretti proprio in una nota ai Canti: “La natura è grande e ci rende grandi purché tra essa e noi non si frapponga l’incivilimento con sofistiche analisi e la nostra ignavia non s’abbassi a non possedere più agli occhi nostri altro mistero fuorché della sua condizione mortale, spenta in noi ogni illusione”. Charles Wright ne è consapevole, tanto è vero che alla fine in Anime perdute scioglie tutti i nodi e ammette che “a lungo andare niente assomiglia a niente, niente di quel che scrivi è mai vero come credi che fosse”. Mentre le sue Giornate italiane volgono al termine e, con Dante e William Blake che si sovrappongono, Charles Wright a Roma scrive una sacrosanta verità, ovvero che “la poesia è sempre un autoritratto, qualche che sia la maschera, che ti togli o rimetti”. Il confronto, a quel punto, è con l’inizio perché “ciò che dura è ciò da cui cominci” e L’altra riva del fiume si era svelata con Lonesome Pine Special: “È vero, credo, come dice Kenkō nei Momenti d’ozio, che la bellezza sempre dipende da una sottrazione, i margini smangiati dalle cose, il graduale vanire, in tessuto e memoria, l’incertezza, e la vertiginosa impermanenza dei giorni cui imploriamo senso, e la loro grazia sfilacciata”. Il maestro Kenkō diceva anche che “se gli specchi avessero un colore e una forma, non rifletterebbero nulla. È il vuoto che contiene sempre le cose. Parimenti, quando mille pensieri affiorano liberamente nel nostro cuore, non sarà forse perché in realtà il nostro cuore è vuoto? Se il cuore avesse un padrone, di certo tante cose non potrebbero entrarvi”. È importante per capire il “paesaggio interiore” determinato dall’Italia, dalla sua “eccellenza intellettuale”, che ha affascinato Charles Wright che, a saldo di tutte le divagazioni, resta convinto, come scrive in Due storie, che “c’è un punto debole in ogni cosa, le nostre dita tocchino, quel punto dove ogni cosa si spezza, se premiamo come si deve. Così è il passato coi suoi bordi affilati e lati ciechi, i girali delle nostre impronte digitali, impressi sulle sue pareti, come fossili lasciati dal mare” e che, pur con tutti gli sforzi e i tentativi, “il problema di come dovremmo vivere la vita in questo mondo, non avrà risposta da noi, stamattina”. Questo però lo dice in California Dreaming, una volta tornato a casa, sull’altra riva dell’oceano, e di fronte alla normalità di tutti i giorni, ma anche quella, tutto sommato, è una scoperta.

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