Le risorse naturali si possono trasformare in beni commerciabili? Come? E a che prezzo? William Cronon cerca di rispondere a queste domande analizzando come l’habitat americano è stato modificato quando due comunità diverse, quella nativa e quella europea, si sono incontrate e scontrate sulla stessa terra, con una prima, essenziale precisazione: “Gli indiani erano vissuti sul continente per centinaia di anni e avevano modificato notevolmente l’ambiente circostante per i loro scopi. La distruzione delle comunità indiane portò di fatto ad alcuni dei più importanti cambiamenti ecologici che seguirono all’arrivo degli europei in America. La scelta non è tra due paesaggi, uno con e uno senza l’influenza umana; è tra due modi di vivere degli uomini, due modi di appartenere a un ecosistema”. La trasformazione della terra è una peculiarità che distingue tutto il genere umano che modifica “consapevolmente il proprio ambiente fino ad un certo limite, si potrebbe anche sostenere che questo, insieme al linguaggio, sia il tratto cruciale che distingue gli uomini dagli altri animali, e il modo miglior per misurare la stabilità ecologica di una cultura potrebbe essere il successo dei cambiamenti ambientali sviluppati per mantenere la propria capacità di riprodursi. Ma se prescindiamo dall’asserzione circa l’equilibrio ambientale, l’instabilità delle relazioni umane con l’ambiente può essere usata per spiegare le trasformazioni sia culturali che ecologiche”. È proprio questo lo snodo su cui si concentra William Cronon: quello che succede in America è che “un mondo lontano e i suoi abitanti gradualmente divengono parte dell’ecosistema di un’altra popolazione, cosicché è sempre più difficoltoso sapere quale ecosistema sta interagendo con quale cultura. L’annullamento dei confini può per sé diventare la questione principale”. L’analisi non lascia scampo: la terra promessa ai coloni non è un Eden accogliente e paradisiaco, deve essere censita, recintata e coltivata nelle “stagioni della scarsità e dell’abbondanza”. Le mutazioni introdotte hanno inciso nel preesistente equilibrio tra la wilderness e le comunità native, ma c’è qualcosa di più. La terra trasformata ci fornisce gli strumenti per comprendere che i nostri “bisogni infiniti” non solo ci condurranno a una radicale metamorfosi dell’ambiente e del paesaggio, ma alla sua distruzione. William Cronon è molto preciso nel definire l’irreversibilità del processo: “Sebbene siamo spesso tentati di associare i cambiamenti ecologici alle città e alle industrie del diciannovesimo e del ventesimo secolo, dovrebbe essere chiaro fin d’ora che i cambiamenti con origini simili si verificarono in modo altrettanto profondo nelle fattorie e nelle campagne del periodo coloniale. La transizione al capitalismo alienò i prodotti della terra quanto i prodotti del lavoro umano e trasformò le comunità naturali altrettanto profondamente di quelle umane. In definitiva integrando gli ecosistemi del New England in un’economia capitalistica globale, i coloni e gli indiani iniziarono insieme un processo dinamico e instabile di cambiamento ecologico che si concluse nel 1800. Ancora oggi ne subiamo le conseguenze. Quando il geografo Carl Sauer scrisse, nel ventesimo secolo, che gli americani, non hanno ancora appreso la differenza tra produzione e saccheggio, stava descrivendo una delle tendenze di più lungo periodo del loro modo di vivere. L’abbondanza ecologica e lo sperpero economico andarono di pari passo: il popolo dell’abbondanza era il popolo dello spreco”. D’accordo, Walden resta un’utopia, ma l’attenta analisi della difficile convivenza di Indiani e coloni nell’ecosistema americano, insegna che il senso unico dei cambiamenti della terra (che è sempre per e verso il mercato) non concede una seconda chance.
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