Prima
di diventare un raffinato romanziere, Arturo Pérez-Reverte è stato
a lungo un inviato al fronte e nel 1988 è stato profetico quando
scrisse: “In realtà non vi invidio le guerre che vivrete tra venti
o trent’anni”. Eccoci qui, con “un
elenco aggiornato di continuo” delle possibilità e dei modi di
morire, come scrive Brian Turner, combattendo in guerre che
ormai “sono
così vecchie, così morte”. La definizione, che invece è di Don
DeLillo, si adatta alla perfezione alla forma di La
mia vita è una paese straniero: mettendo
in conto sette anni come “parte dell’inventario dell’esercito
americano”, Brian
Turner riunisce “poche frasi legate insieme nella sommaria
descrizione di una vita passata in guerra. Lo schieramento in
battaglia. Il filo della vita di una guerra”. All’inizio sono
“frammenti. Lampi di luce. Nient’altro che parti”, poi “un
tripudio di fucili, volti camuffati e intenzioni oscure” finché La
mia vita è un paese straniero non
comincia a germogliare in “uno spazio interiore, uno spazio che non
apparteneva né all’esercito né alla comunità militare in cui
prestavo servizio”. La convivenza tra le liriche e le armi, pur
radicata nella storia dell’umanità, si è fatta schizofrenica
(come tutto il resto, a dir la verità) perché “la guerra vera è
in televisione”. La visione è cambiata per la prospettiva, dato
che “a ben vedere, la vera macchina da presa siamo noi”, e di
conseguenza nella consapevolezza della tragica essenza della guerra
dove, spiega con rara profondità Brian Turner, “è
tutto percepito, in qualche modo, come una vastità di spazi, dove
l’architettura della civiltà non interviene, l’ambiente del
consorzio umano è chissà come assente o sospeso. Uno spazio in cui
le regole sono sottosopra. Teatro di guerra, lo chiamano alcuni. Lo
spazio in cui la guerra si svincola dalle strutturate regole degli
umani per dibattersi nel mondo naturale, nell’idea di bellezza, in
tutto ciò che su questa terra vi è forse di più simile a una
perfezione inviolabile”. Ecco, all’inizio, la domanda è: “Sono
questi i principi che ci hanno portato qui?”, e non c’è nulla di
retorico o di eroico, nel chiederselo, perché la risposta è
superata dagli eventi: armi che vedono e colpiscono ovunque, uomini e
donne e bambini usati come scudi, bersagli, bombe umane, atrocità e
crudeltà che si inanellano seguendo un’involuzione senza fondo.
Quello che rimane è solo un’altra domanda: “Come fa uno a
lasciarsi alle spalle una guerra, quale che sia, e a riprendere il
cammino della vita che gli resta?”Brian Turner dice in modo molto
coraggioso quello che tutti sussurrano sottovoce e che si intuisce
nei ricordi collezionati nei memoir di Chris Kyle, Ben Fountain, Phil
Klay, David Tell o Siobahn Fallon che hanno vissuto e osservato le
moderne guerre americane da vicino, e da diverse angolazioni. L’unica
verità che sopravvive è che l’operazione del rientro “richiede
anni e anni”, ma nessuno torna veramente. Brian Turner parte da una
constatazione più complessa, avendo percepito fin dal giorno
dell’arruolamento, “a un livello profondissimo e immutabile, che
sarei partito e mai tornato”. Non è tutto perché un pezzo dopo
l’altro La
mia è un paese straniero si
costruisce e si rivela nel titolo (e lo completa) quando Brian Turner
dice: “Forse il punto non è tanto che è difficile tornare a casa,
quanto che a casa non c’è spazio per tutto quello che devo
portarci. L’America, smisurata ed estesa da un oceano all’altro,
non ha abbastanza spazio per contenere la guerra che ognuno dei suoi
soldati porta a casa. E anche se ne avesse, non vorrebbe”. Scomodo,
urgente, necessario.
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