Il tentato
omicidio di Samantha Cicciaro, editrice, redattrice e unica inviata
della fanzine Land Of Thousand Dances
è la scintilla che accende la complessa reazione a catena di una
Città in fiamme. New
York City è “una città di fine secolo” dove predatori e
speculatori, artisti e spacciatori, cronisti e investigatori devono
condividere i torbidi conflitti su cui è fondata. Gli elementi
umani, chimici, in ultima analisi, persino storici e politici, alla
base di Città in fiamme
sono più che concreti ed è vero, come scrive Garth Risk Hallbert,
che è “tutto casuale, certo, ma era questo che la città di
regalava e i romanzi no: non quello che ti occorreva per vivere, ma
prima ancora, quello per cui valeva la pena vivere”.
L’infinitesimale differenza coinvolge una ragnatela di personaggi
le cui azioni si concatenano nello schema degli eventi e avendo il
tradimento e/o la metamorfosi come forma di comunicazione, sono tutti
collegati perché “sembrava che oggi ogni americano avesse il suo
gemello oscuro, la possibilità di una vita vissuta in un modo
diverso”. A quel punto la trama di Città in
fiamme si attorciglia attorno alla famiglia
Hamilton-Sweeney, alla collezione di Mark Rothko, ai contrasti e ai
sotterfugi insiti nella parentela e nella gestione del patrimonio.
Una sorta di Dynasty
prende il sopravvento con una lenta, subdola progressione e la Città
in fiamme rimane vista dall’alto di piani
inarrivabili, mentre, giù, nelle strade succede di tutto. Costruito
con gran dispendio di particolari, caratteri e fuochi d’artificio
tipografici, Città in fiamme
collassa proprio nel finale. Annunciato dalle fanfare di mille
segnali diversi, dallo snodarsi di persone “esageratamente vive”,
è convulso, stratificato, frammentario e inconcludente, con tanto di
colpi di scena a raffica. In quel momento, sì, “la maschera si
trasforma nel volto” e Città in fiamme
si rivela nella sua forma concreta: un’intuizione solida e
pregevole che si è espansa in modo smisurato, gonfiando attorno al
nucleo principale una massa inerte, se non proprio inutile. E’ come
se la Città in fiamme
mancasse lì proprio dove dovrebbe essere. Stiamo parlando di New
York tra il 1976 e il 1977 ed è sfiorata soltanto dalla presenza di
Patti Smith e dell’asse diretto con Lou Reed, poi di sfuggenti
citazioni di Clash, Richard Hell, i Dictators, Iggy (che è sempre
Iggy Pop), e poco altro, nonostante la variopinta ricchezza di Land
Of Thousand Dances. Mancano dei pezzi
importanti. Nei momenti in cui New York, quella New York, dovrebbe
diventare visibile, tangibile ecco che Garth Risk Hallberg sfuma,
corregge, mitiga, confonde. Volendo, la Città
in fiamme c’è tutta, in superficie: il
punk, la droga, il vomito, Taxi Driver,
gli aspetti della gentrification per cui interi quartieri vengono declassificati a zona di degrado urbano e poi fatti risorgere dalle
ceneri speculando sull’edilizia residenziale. Tutto quanto,
soltanto che implode invece di esplodere. Nel suo farraginoso
svolgersi, Città in fiamme
trova sempre il modo di sviare il discorso e il contesto tende a
confondersi in “una metafora incompiuta, un tono in cerca di un
mezzo”, per parafrasare lo stesso Garth Risk Hallberg. Un po’ è
dovuto alla prosopopea (sono un migliaio di pagine, in tutto), un po’
all’eccessiva tendenza alla divagazione, un po’ all'assenza di attrito tra i diversi livelli della narrazione, tra le tante prospettive con cui i personaggi e le loro storie sopravvivono a New York, che resta pur sempre una Città in fiamme, con molto fumo e qualche angolo ancora immerso nel buio.
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