E'
proprio vero, come scrive Martin Amis, che “i grandi
scrittori come Don DeLillo possono portarci dove vogliono, ma la metà
delle volte ci portano dove non vogliamo andare”. Vale in modo
specifico per L'angelo Esmeralda,
una raccolta antologica di racconti e di frammenti eterogenei nella
composizione e nell'origine che attraversa due secoli, partendo nel
1979 da Creazione e
arrivando al 2011 con La Denutrita.
E' l'underworld di Don DeLillo, un work in progress che si dipana in
una serie di flash, di istantanee, senza mediazioni, inseguendo
l'assurdità delle parole, l'espressione in simboli e vocaboli che
evocano mutazioni repentine, crisi, caos. E' sempre una scrittura
enigmatica, a volte criptica, non sempre (quasi mai) agevole, eppure
anche se nel loro evidente, incompiuto formato non possono competere
con la geometria maniacale dei suoi romanzi, le storie comprese da
L'angelo Esmeralda portano
sempre su una frontiera indefinita, che sia quella dei terminal
aeroportuali in Il corridore così
come la terra di nessuno nelle aree metropolitane senza legge e senza
giustizia nel racconto che offre il titolo della raccolta. E' dentro
queste cornici che si materializzano i personaggi di Don DeLillo: la
coppia querula in La mezzanotte in Dostoevskij che
ammette la vacuità del virus del linguaggio, confessando
candidamente che “meno le nostre discussioni erano profonde, più
ci infervoravamo” o l'uomo che andava al cinema in La
Denutrita, ipnotizzato dal
cinema e dal buio perché “qualunque
luna di inquietudine e malinconia alegiasse sulla sua esperienza,
recente o lontana, quello era il luogo in cui tutto aveva la
possibilità di evaporare”. Più
di tutti è Vollmer, lo specialista che non è specializzato in
niente in Momenti di umanità nella terza guerra mondiale.
Il confine su cui deve resistere è quello che gli offre la
prospettiva migliore, essendo in orbita attorno alla terra, e allora
ricorda che “tutte le guerre rimandano al passato. Navi, aerei,
intere operazioni prendono il nome da vecchie battaglie, armi più
rudimentali, da quelli che noi percepiamo come scontri nati da più
nobili intenti” e che “la guerra è una forma di nostalgia”. Se
non è la guerra, è un'evoluzione del conflitto, della frattura tra
una “realtà ingovernabile” e la crescente frustrazione di
persone che “speravano di ritrovarsi coinvolte in qualcosa di più
grande di loro”, e rimangono lì in un limbo di voci afone. Forse
Don DeLillo si identifica proprio con il protagonista di Momenti
di umanità nella terza guerra mondiale,
un osservatore lontano, a cui piace che “le parole abbiano una
certa reticenza, che rimangano aggrappate a un punto scuro nel più
profondo dell'interiorità”. Possono sembrare incipit o
interminabili finali di romanzi (il claustrofobico Baader-Meinhof,
più di tutti), con
una complessità tale da suggerire l'esistenza di romanzi dalle
dimensioni di Rumore bianco
o Underworld,
ma il leitmotiv di questi
racconti è sempre una dimensione onirica, psichedelica o comunque
distaccata dalla realtà, una separazione necessaria per quel “lavoro
massacrante” che è riflettere. Non sempre è il desiderio più
urgente, anche se resta il più necessario.
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