Imperfetto, esuberante, appassionato, il Leonard Coen di Parassiti del paradiso è un troubadour affascinato dalla primordiale unità di poesia e musica nello stesso linguaggio e, proprio come si presenta nelle prime pagine, è un beautiful loser con il coraggio di confessarsi a cuore aperto: “Non sono destinato a niente, non sono sul punto di ascendere alla mia gloria, così devo tirare avanti tra le mie pastoie, devo contrattare per qualsiasi tozzo d’amore potrò conseguire, al di fuori della mia breve storia particolare nessuna passione mi dispiegherà, nessun particolare mi ha rivendicato e quindi devo intrattenermi nella sciatta politica del generico, e rivolgere il mio pianto agli dei per provare che gli dei sono irreali, proprio come io e mio fratello appannavamo le finestre con il fiato in modo da poterci disegnare sopra con le dita”. La natura dei versi di Parassiti del paradiso è grezza e e selvaggia e ci sono canzoni ancora in bozzoli di poesia che sbocceranno nei suoi primi dischi a partire da Songs Of Leonard Cohen (anno di grazia 1968). Tra le altre c’è una prima Suzanne e Leonard Cohen si conferma già votato alla figura femminile più come un artista, un pittore o uno scultore, che un poeta. E’ il “detective dell’amore” che reclama la sua controparte (“Porta tutta te stessa, porta tutto ciò che è tuo, ben addentro alla scheggia cantiamo per nulla”), la sollecita (“Hai idea di qunti film ho dovuto guardare prima di sapere con certezza che ti avrei amata”), le notifica se sue generalità (“Io sono l’uomo da mandare ad amare”) e la clausola segreta (“Non è così dura dire addio”) che regola tutti i paradisi e gli inferni dell’attrazione. Il bello e dannato sa che “l’amore si usura come specchi troppo usati che si scrostano e parti delle vostre facce lasciano spazio al muro che c’è dietro” e quello che non trova nelle sue femme fatale, perché “gli incubi non sviluppano veloci il lieto fine”, lo cerca in altre dimensioni, non meno suggestive. C’è un’altra Suzanne, ed è Suzanne Vega, che lo ha capito, visto che introduce così Parassiti del paradiso: “Alcune poesie offrono frammenti di idee, altre interi paesaggi. Lo vediamo asservito e affrancato. Alcune poesie sono ambientate nel mondo reale, di solito una città, e altre in un mondo interiore che ha i tratti del mito. Alcune sono poesie compiute, liriche in metrica dal ritmo ascendente e discendente e con rime solide, altre sembrano più delle riflessioni o passi di prosa, ma non per questo sono meno potenti”. Parassiti del paradiso è il primo figlio della “disciplina visionaria” che porterà poi Leonard Cohen a coltivare l’arte della contemplazione e contiene persino un brillante scampolo di quello spirito zen che sarà uno dei suoi tratti più eleganti: “Uno di questi giorni aprirò una tavola calda che serve il caffè in tazze fini, tazze di porcellana cinese pelle e ossa. Quello che perdiamo con le tazze ce lo ripaghiamo in gratitudine”. Farà molto di più: imbraccerà una chitarra e incanterà il mondo.
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