martedì 19 luglio 2011

Kaye Gibbons

Il linguaggio è diretto, rustico, naturale: Maggie Barnes, la madre volubile e incontrollabile e Hattie, la figlia che è la protagonista di A occhi chiusi dialogano in un modo impossibile, eppure il confronto è serrato, continuo, martellante. Il quadro famigliare, con il padre che cerca con infinita pazienza di tenere insieme fili sfuggenti spinge Hattie ad accellerare i tempi e A occhi chiusi è la dolorosa ricostruzione di un’infanzia trascorsa accanto a una donna, una madre, intenzionata “a far parte dell’umiltà” nonostante la malattia, il disagio e la confusione. Hattie usa il ricordo come una leva per ritrovare qualcosa che le è sfuggito e per trovare un ordine a dimensioni troppo ingombranti. “Fui sottoposta a una tale valanga di idee e sensazioni insolite che avrei impiegato anni a scavare tra le macerie, stupita da quanto la vita mi stava mostrando, incerta su quanto si aspettava che custodissi” dice nel cuore di A occhi chiusi e si comprende il suo stupore. La dinamica dei rapporti è ondivaga e segue le tempeste emotive della madre che si trascina tra cupe depressioni e inarrestabili momenti di euforia. Il padre, per quanto stoico nelle sue sopportazioni, non può esserle d’aiuto più di quel tanto. Una delle spiegazioni all’improvvisa attività sessuale della madre arriva così, senza troppe perifrasi: “Devi sapere che uomini e donne si esercitano a fare bambini. C’è gente che non fa altro nella vita. A quanto pare, ultimamente tua madre ha una gran voglia di esercitarsi. Ma non preoccuparti prima o poi si fermerà a riprendere fiato”. La felicità, o anche solo una parvenza di serenità, è una chimera e in un continuo clima di conflitto Hattie impara a sopravvivere attraverso le parole. Un’iniziazione di cui lei stessa si accorge ben presto: “Già allora avevo la netta sensazione che in casa nostra avvenisse qualcosa di cui non ero al corrente. Conversazioni ed eventi mi passavano sopra la testa, e io trascorrevo il mio tempo a origliare la vita della casa”. A occhi chiusi è l’estremo possibile della sua scrittura, dove si incontrano i temi “southern” così come una raffinata evoluzione dello stile, in cui i dialoghi, figli di una radicata cultura orale, vengono definiti e impreziositi ma non edulcorati. Un aspetto che ha un riscontro autobiografico e sincero: in un’intervista Kaye Gibbons ricordava che nelle sue radici sudiste “c’è una tradizione oratoria molto radicata a tutti i livelli. Amiamo esprimerci in maniera colorita, folkloristica. Amiamo moltissimo le metafore. Cerco di dare alla mia scrittura e alla struttura dei romanzi un contenuto più denso, voglio mostrare un po’ più di quello che sta in profondità. Non sono brava a descrivere i paesaggi o le coreografie e sento che non lo sono nemmeno per le fisionomie. Così, quello che conta per me sono le motivazioni delle conversazioni. Per il resto, mi basta lasciare degli appunti, poi il lettore è libero di immaginarsi quello che vuole”. Soprattutto con A occhi chiusi, un romanzo da “sentire” più che leggere.

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